Soldado - La Recensione

Soldado Sollima
I cartelli della droga ora spacciano terroristi, o comunque migranti di ogni tipo. Ci troviamo sempre al confine tra Messico e Stati Uniti, ma la droga non è più una minaccia o una priorità. Il commercio di esseri umani è il business moderno e il Governo degli Stati Uniti, colpito in prima persona da alcuni attentati, ha intenzione di contrastarlo sporcandosi le mani e non la faccia.
Tornano Josh Brolin e Benicio Del Toro, allora, nel sequel di “Sicario”; tornano i lupi dal sangue freddo, i cinici senza cuore. Di Emily Blunt e della sua morale neanche l’ombra, ormai, perché se farsi scrupoli era fuori luogo prima, figuriamoci adesso: dove la priorità è mantenere l’ordine e il pugno duro.

Siamo nell'America trumpiana, insomma: non viene detto, ma si capisce; siamo in contatto col presente, con la minaccia dell’ISIS e la piaga dei clandestini; per cui, di nuovo, per contrastare la vulnerabilità delle frontiere (in attesa del famoso muro, almeno), c’è bisogno di fare chiasso in silenzio, di tirare il sasso e nascondere la mano, di giocare d’astuzia, in pratica. Si veste inevitabilmente con abiti più cupi del suo capostipite, quindi, “Soldado”, assumendosi il compito – per niente facile - di portare avanti il discorso sulla fragilità e sui traffici delle barriere, tenendo conto del delicato momento storico e contemporaneamente cercando di non perdere di vista neppure quel filo, più o meno diretto, con le atmosfere composte da Denis Villenueve e ereditate, adesso, dall'entrata in scena, della nostrana conoscenza Stefano Sollima in regia. Un cambiamento importante, per certi versi radicale, identificabile in primis da una pellicola che rinuncia moltissimo agli interni per muoversi prevalentemente verso ambienti esterni, sul campo; mettendo da parte i ragionamenti e le strategie di una volta, per favorire un’azione che non è mai stata tanto semplice e pratica da realizzare. Un’azione che schiaccia – letteralmente, anche – molto spesso gli stessi protagonisti, messi costantemente al suo servizio e meno inclini ad aprirsi o a osservarsi dentro.

Soldado SollimaOrdini rigidi di una sceneggiatura – scritta ancora da Taylor Sheridan – che mira a gravitare su più livelli, a non focalizzarsi su un punto di vista particolare – quello americano, piuttosto che dei contrabbandieri, o della ragazzina rapita – e a modellarsi secondo gli schemi di una narrazione assai vicina a quella corale: uno stile che, tuttavia, contribuisce a creare più confusione che suspense, palesando rapidamente una grave difficoltà a tenere il passo e il coinvolgimento. Una grana di cui Sollima, se è responsabile, può esserlo considerato solo in parte. Chiamato come mero esecutore, infatti, lui avrebbe senz'altro potuto affrontare la questione sprigionando maggiori dosi di personalità, ma solitamente, in produzioni simili, le regole sono alquanto chiare e tassative: meno rompi le scatole, meglio è. La sua mano, perciò, la si riconosce soprattutto nella scelta delle inquadrature, nella fotografia: libera, forse, di esprimersi con meno paletti lungo la parte estetica, quella dove “Soldado” lascia, senza dubbio, i segni migliori.

Complessivamente, però, sarebbe opportuno parlare di delusione, di progetto forzato; tra l’altro orientato – stando alla conclusione – a farsi presto trilogia: con un capitolo finale che dovrebbe andare a chiudere un presumibile cerchio. Certo è, che rispetto al già non perfetto primo capitolo, per risollevare le sorti del franchise, in futuro, ci sarà bisogno di un lavoro più convinto e convincente. Ammesso che i programmi non decidano di mutare.

Trailer:

Commenti