Notti Magiche - La Recensione

Notti Magiche Paolo Virzì
Anni 90'. Estate. Sui televisori le partite dei mondiali, commentate da Bruno Pizzul, invadono strade e appartamenti. Tutti quanti, anche le donne, o coloro che del calcio solitamente fanno a meno, si stringono tifando la nostra nazionale, in quelle che furono rinominate – con tanto di brano musicale - come le famose Notti Magiche (inseguendo un goal).
Paolo Virzì, però, di quelle notti, di quelle emozioni e di quel fermento sportivo ne prende solo lo sfondo (e la disfatta), perché anche se il suo film si intitola allo stesso modo, in realtà, finisce col raccontarci tutt’altro.

Al centro della sua pellicola, infatti, ci sono tre aspiranti sceneggiatori – due uomini e una donna – cui viene data l’opportunità di assaggiare cosa significa integrarsi e lavorare all’interno dell’industria cinematografica italiana. Tre fortunati, che attraverso un (noto) concorso di scrittura, vengono catapultati in mezzo ai più grandi registi, produttori, intermediari e attori del momento, rigorosamente radicati in quella che, all’epoca, era una Roma fastosa e festosa, assai diversa da quella di oggi: e dove bastava uscire e riversarsi nei vicoli giusti per cominciare a sognare, divertirsi e ritrovarsi, poi, a vivere delle notti magiche. Tuttavia, secondo Virzì, – e per interposta persona, anche secondo i suoi partner di sceneggiatura, Francesca Archibugi e Francesco Piccolo – quel periodo rappresenta esattamente il colpo di grazia che ha portato al decadimento del cinema italiano; lo snodo cruciale responsabile del piattume e dell’abbassamento culturale con cui stiamo facendo i conti; la distruzione di una macchina - invidiata e bramata - ad opera di produttori incapaci e donnaioli, sfruttatori e di uno showbiz che, nel frattempo, si faceva largo - tirando in gioco persino la politica – e che contribuiva a far passare in secondo piano quella che era l’importanza dei temi, la potenza del mezzo e l’attrazione (di (alcuni) giovani appassionati) verso di esso.

Notti Magiche VirzìPoca commedia, allora, una spruzzata di noir – affidata alla morte sospetta di un produttore, caduto nel Tevere con la sua auto, che porta i tre protagonisti ad essere interrogati in centrale tutta la notte – e tanta, tantissima disillusione. Già, nonostante le battute, – che ci sono, ma che raramente risultano liberatorie – la percezione è che Virzì abbia voluto premiare maggiormente la necessità, in qualche modo, di manifestare il suo bisogno, la sua urgenza e nostalgia nei confronti di un cinema che, ormai, ostenta costantemente a rimanere a galla, e verso il quale nutre (e nutriamo, noi con lui) ancora affezione e speranza. Quel cinema che in “Notti Magiche” è il goal che seguono i suoi ingenui e aspiranti sceneggiatori - quello di Fellini, di Antonioni, di Mastroianni - ma che poi - come l’Italia in quei Mondiali - da favoriti e lanciati che erano saranno costretti a rinegoziare, re-inventare e, infine, a lasciarsi alle spalle, proprio quando il traguardo del trionfo personale pareva essere lì, a un passo.

Quel cinema che ci appare adesso lontanissimo, remoto, mangiato da chi l’ha tradito per tornaconto personale, egoismo e vizi, e contro il quale nulla hanno potuto quei grandi Maestri che a tavola - nei ristoranti di ritrovo - intanto ne prendevano le distanze: preferendo non immischiarsi nel pasticcio in esecuzione e rimanere in silenzio, vigili e consapevoli di una fase (d’oro) giunta, purtroppo, al capolinea. Maestri ai quali era stato concesso il dono di riconoscere la purezza, l'estro, con l'istinto di salvaguardare facili prede dalla feccia e la testa incapace di voltare pagina verso un pensionamento che - considerata la direzione - si era deciso, conveniva un po' a tutti.
Visto che tanto, del Cinema, di quello con la C maiuscola, erano cominciate a intravedersi già le prime briciole.

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