[Belli e (im)Possibili] Burning - La Recensione

Burning Lee Chang-dong
Un giovane ragazzo dall'aria spaesata viene avvicinato da una giovane promoter che sta sponsorizzando una bizzarra riffa lungo la strada. Lei gli dà un biglietto, gli sorride facendogli un cenno d’intesa e tempo pochi secondi lui è il vincitore di un orologio da polso da donna. Nessuna fregatura (a parte il non avere una fidanzata a cui regalarlo), ma solo la voglia, da parte della ragazza, di riprendere i contatti con quello che ha riconosciuto essere un suo vecchio amico d’infanzia: il quale non poteva accorgersi di lei perché – come gli dice – si è fatta la plastica.

È il primo indizio, il primo allarme impercettibile di una storia che da lì in poi non smetterà mai più di strizzare l’occhio al sinistro, a quel senso di mistero che, per il protagonista Jongsu, rappresenta un po’ la sua visione del mondo. Perché poi di situazioni poco chiare “Burning” ne tira in ballo parecchie, come quando tra lui e Haemi – la ragazza della riffa – c’è un avvicinamento sessuale anticipato dal ricordo di lei che lo accusa di avergli parlato un’unica volta, da piccoli, dichiarandole gratuitamente quanto la trovasse una brutta ragazza. Avvenimento che rende maggiormente ambigua la richiesta post-seduzione di lei che, in partenza per l’Africa, chiede a Jongsu di prendersi cura del suo gatto domestico invisibile; un gatto molto riservato, afferma, così tanto da far sorgere il dubbio che sia praticamente inesistente. Del resto è un thriller a tutti gli effetti la pellicola di Lee Chang-dong (basata su un racconto breve di Haruki Murakami) e, come tale, ha il dovere di confondere le acque, di renderle torbide, costruendo una tela capace di assumere fascino e coinvolgimento quanto più riesce ad essere complessa, equivoca e ambigua. Tant'è che, a un certo punto, entra in scena anche un terzo incomodo: un uomo ricchissimo, conosciuto da Haemi durante il suo viaggio, che finisce (incalzato dalla donna) per mettersi in mezzo nel rapporto - in crescendo - tra lei e Jongsu formando un triangolo (non)amoroso, ostico, eppure utile a porre l’accento su ben altri elementi.

Burning Lee Chang-dongNon bisogna lasciarsi ingannare, infatti, da “Burning”; giungere a conclusioni affrettate o dare per scontato che siamo noi a stargli un passo avanti. Bisogna mantenere il beneficio del dubbio, tenere in considerazione la possibilità che Lee Chang-dong voglia portarci fuori strada seminando piste semi-false che non vanno a costituire il puzzle completo, ma solo dei piccolissimi pezzi dello stesso. Certo, la sua apparente ingenuità - che non è mai registica, sia messo a verbale - ci stuzzica, ci provoca, ma è estremamente calcolata per farci tornare al punto di partenza non appena crediamo di essere riusciti a risolvere l’equazione o di starci molto vicino. Può capitare, allora, che colui nominato come papabile carnefice possa tramutarsi in vittima, che tutto ciò che non tornava, o faticava a stare in piedi, all'improvviso faccia capolino e che - alla stregua di una pantomima - il non riuscire a vedere concretamente l’esistenza o il succedere di certe cose - tutte assorbite tramite l'esperienza personale di Jongsu - non significhi che queste non possano essere comunque vicine (o addirittura dei pezzi della) alla realtà.

Una realtà malinconica, decadente, fatta di solitudine e di fragilità sottese che - seppur in maniera disuguale - accompagna tutte le anime della storia, determinandone scelte e comportamenti. In una Corea del Sud, posta sullo sfondo, che non ce la fa a restare immune ai cambiamenti e alle crisi politiche e sociali mondiali, e a proteggersi, quindi, da un futuro sempre più incerto e colmo di rabbia.
Condizione che, alla fine, attraverso il suo gioco di specchi, a Lee Chang-dong interessava evidenziare più di ogni cosa.

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