La Casa Di Jack - La Recensione

La Casa Di Jack Lars Von TrierSotto c’è sempre Lars Von Trier. Di mezzo ancora la sua (auto)analisi.
Non si ferma il regista danese e prosegue il percorso di coscienza con il quale ha iniziato a scavarsi dentro, mettendosi a nudo senza alcuna paura (e pietà). Questa volta lo fa attraverso gli omicidi di un serial-killer: il Jack di Matt Dillon che, traghettato da Verge (in italiano Virgilio) tra i gironi dell’inferno, approfitta del lungo viaggio per raccontare - a lui, ma soprattutto a noi - come cinque incidenti a caso – dove la parola incidenti è sinonimo di uccisioni – lo hanno costretto e incoraggiato a intraprendere il cammino verso una selva oscura.

Rispolvera le tracce della Divina Commedia che aveva già toccato nel primo volume di “Nymphomaniac”, Von Trier, con l’intento stavolta di non abbandonarle per la strada, ma di portarle al culmine nel momento più opportuno. Anche lo stile narrativo – diviso in 5 capitoli più un epilogo – e la modalità con la quale vengono spiegati e giustificati certi fatti o comportamenti – con riferimenti artistici e approfondimenti culturali – paiono ripresi in blocco dal suo lavoro precedente, portando “La Casa Di Jack” ad essere assimilato come la conseguenza antologica di una seduta di psicoterapia destinata a scendere maggiormente in profondità. Non è più, infatti, una questione relativa solo al suo rapporto con le donne e col mondo femminile – che pure torna e, se non fosse per il quinto incidente, rischia addirittura di equivocare nel maschilismo – la maschera di Jack con cui Von Trier copre il suo volto, in questo caso, vuole prendere di mira il mondo, il prossimo, l’altro. Ci sbatte in faccia il suo lato egocentrico, il regista, la sua superiorità, il suo intelletto, con un protagonista che è una sorta di Dexter che non ce l’ha fatta a immettersi sulla buona strada perché non ha voluto nemmeno provarci. E come Dexter anche lui simula le emozioni, si confonde tra la gente, ostenta gentilezza: celando quella parte psicopatica e ossessivo-compulsiva, sbocciata da bambino, con la quale riesce puntualmente, poi, a manipolare chiunque e a nutrire, infine, la sua sete di sangue e di violenza.

La Casa Di Jack Matt DillonUna tendenza - e una dipendenza - che, man mano, cresce, si evolve, raggiungendo parallelismi estetici, raffinati, creativi: con fotografie di cadaveri che diventano composizioni, che a loro volta mutano puntando a vere e proprie installazioni elaborate e grottesche. Non rinuncia alle provocazioni, insomma, Von Trier, e non è una novità. Spesso rischia di farsi eccessivo, insensibile, ma è lui stesso - tramite le ammonizioni di Bruno Ganz, in controbattuta - il primo a mettersi in discussione, a rimproverarsi, ad accusarsi.
Cita il suo cinema, il Nazismo: rincarando la dose su una materia che lo aveva messo in discussione qualche anno fa e che continua ad affascinarlo dal punto di vista iconico e d'impatto. Va a ruota libera, spavaldo, tirando dentro persino l'ipotesi di un appoggio divino, propenso al male, e fregandosene del nostro giudizio perché tanto, per quanto crudele, orribile e duro che sia, non sarebbe mai all'altezza di quello che lui ha deciso di apparecchiarsi da sé: sbarcando laddove Dante fu di passaggio, come ultima fermata possibile e inevitabile.

Non c'è scampo, allora.
Von Trier si condanna e, in teoria, nessuno dovrebbe avere il coraggio di obiettare, di aprire bocca. Eppure, mentre Jack tenta di compiere l'ultimo gesto folle, estremo e superbo della sua vita, noi siamo lì a sperare che ce la faccia. Siamo lì a sperare che possa raggiungere il Paradiso: come se gli avessimo già perdonato, o scaricato da sopra le spalle, tutti gli atroci peccati commessi. Una reazione istintiva, spontanea, che ci fa capire quanto, in fondo, a uno come Lars Von Trier si vuole bene a prescindere. Come il suo cinema, per quanto architettato, aggressivo e caustico, sia contemporaneamente puro, libero, unico. Un cinema dal quale si diventa dipendenti e dopo il quale si fa difficile scendere di livello e accontentarsi.
E che sarebbe un peccato enorme, dunque, lasciar dissolvere tra le fiamme dell'inferno.

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