Ema - La Recensione

Ema Larrain
Si apre con un’inquadratura fissa su un semaforo in fiamme, il nuovo film di Pablo Larrain.
Un’immagine suggestiva, metaforica, che a primo impatto può dire poco o niente, forse, ma che a giochi fatti rappresenterà perfettamente l’istantanea del suo “Ema”.

Un titolo che prende il nome dalla ragazza protagonista, la quale - come un fuoco, appunto – tende a infiammare, a inglobare e – inevitabilmente – a bruciare (simbolicamente e non) tutto quello con cui (vuole) entra(re) in contatto. Un sottotesto che Larrain utilizza pure per andare a costruire le basi della trama: con questo bambino preso in adozione da Ema e da suo marito – con tendenze omosessuali risolte – Gastón, responsabile di aver dato fuoco alla zia e quindi restituito subito all'istituto. Una reazione istintiva che, tuttavia, Ema vorrebbe non aver mai compiuto ed è disposta a tutto pur di poterla annullare. Del resto glie lo comunica chiaro e tondo la donna dei servizi sociali: lei e il marito devono pensare a ballare, a fare quelle coreografie di gruppo che spesso entrano in scena e catalizzano la nostra attenzione, ipnotizzandoci visivamente; perché nessuno dei due è in grado di fare il genitore, a meno che non si tratti di dover badare a un bambolotto inanimato. Ed è da queste parole, allora, che “Ema” comincia a divampare, ad animarsi, a sciorinare oscure mosse che scopriremo essere parti di un piano di vendetta (ma più contro un sistema che contro qualcuno) che sarà complesso e spiazzante, tanto quanto (ci) apparirà, infine, naturale e sostenibile (e, magari, innovativo).

Ema di GirolamoIl Larrain che non ti aspetti, insomma.
Un Larrain che apre le porte al (discutibile) reggaeton, a una musica che tutti quanti ci troviamo d’accordo con Gael García Bernal quando – nell'ennesima discussione tira e molla con sua moglie – la demolisce, la rifiuta, battezzandola - nervosissimo - buona solo per il carcere. Ma una musica, anche, che quando scorre sul corpo e sul volto della magnetica Mariana di Girolamo – inquadrata sempre da vicino, a volte strettissima, dal regista – è come se riuscisse a perdere quel senso di repulsione, a rinascere sotto una forma tutta nuova, accettabile, digeribile. Che è un po’ quello che succede alle regole, alla realtà e ai suoi meccanismi costretti a piegarsi ogni qual volta che Ema decida di calpestarli, di passarci sopra, di infliggergli quel male che lei stessa, a un certo punto, ammette pubblicamente di essere. Una donna giovane, bella, sensuale, scaltra: la manipolatrice per eccellenza. Supportata da un corpo di ballo – paragonabile a una scorta – che amplifica spudoratamente quel girl power e quel travolgimento di cui è già sana e consapevole portatrice.

Perciò, una volta rimessi a posto tutti i pezzi; una volta rifatto ordine in quel caos che, per indole, Ema è condannata a generare, ecco che ci ritroviamo a osservare un mondo ai limiti del sinistro, assurdo, un mondo in cui, di sicuro, molti di noi dovrebbero imparare a vivere quasi da zero. Colpa di un fuoco che – come ha fatto con quel semaforo – passando ha preteso di cambiare le regole, di ardere ciò che non tollerava, vincolando(ci) a un adattamento imprevisto, senza alcuna chance di negoziazione.
E non risparmiando nemmeno Larrain e il suo cinema.

Trailer:

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