Terminator: Destino Oscuro - La Recensione

Terminator: Destino Oscuro
I’ll be back, affermava Arnold Schwarzenegger, nel primo Terminator.
Una promessa mantenuta e che è riuscita a trascendere dalla trama di quel film, legandosi al personaggio, all'icona e, ineluttabilmente, all'intera saga.
Già, la saga di Terminator. Anche lei ritorna sempre. E quando fallisce – è accaduto sia coi sequel che con il primo reboot di quattro anni fa – non si perde d’animo, ricarica le batterie (e le idee), ed ecco che ci riprova.

Va detto che, stavolta, il credito è superiore, perché rispetto a tutto ciò che abbiamo visto dopo “Terminator 2: Il Giorno Del Giudizio”, in questo nuovo capitolo tornano a comparire il nome e la garanzia di James Cameron: tra i produttori e tra gli autori del soggetto (ma non della sceneggiatura). Un coinvolgimento che inizialmente aveva contribuito a solleticare l’entusiasmo dei fan più malinconici e delusi, ma che – sarà a causa dei tanti “Avatar” che sta preparando – non ce la fa, a conti fatti, ad essere così incisivo da riuscire a cambiare le sorti (il futuro?) di un franchise sempre più in difficoltà. Deve ritrattare il passato – narrativo e cinematografico – per affermare la sua esistenza, infatti, questo “Terminator: Destino Oscuro”, eseguire un importante variazione (in digitale, con tre principali attori palesemente ricreati al computer) che rimpasta la storia così come la conosciamo, per andare a riscriverla in maniera simile, ma non uguale. Una (grossa) inversione di marcia che – puristi o meno – saremmo anche disposti ad accettare, se permettesse al regista Tim Miller e alla sua squadra di sceneggiatori di trovare la chiave per costruire uno spettacolo all'altezza del marchio di cui si sono fatti carico. Il problema è che, nonostante tutte le concessioni e le migliori intenzioni, da parte nostra, ad arginare i pregiudizi, ogni loro mossa convoglia palesemente nella direzione commerciale (e industriale) di quei parchi giochi a tema – per citare Scorsese – che con il cinema hanno ben poco a che vedere.

Terminator: Destino Oscuro Sarah ConnorTradisce gli spettatori, ma innanzitutto tradisce sé stesso, questo “Terminator: Destino Oscuro”.
Perché con i ritorni di Schwarzenegger e di una cazzutissima Linda Hamilton – e, magari, seguendo determinate coordinate – aveva abbastanza elementi a disposizione (e l’occasione) per muoversi meglio e mettere in mano al buon personaggio di Mackenzie Davis e alla Sarah Connor di turno, Natalia Reyes, un’eredità discreta, sulla quale poter lavorare con calma e perizia. Ricalcare – seppur con leggerissime sfumature – il plot originale, non fornendo, a chi vede, nessunissima variazione consistente sul tema – se non quelle di una contestualizzazione che ci riporta all'America trumpiana e ad un’epoca in cui le guerre sono cibernetiche e gli spostamenti più facili da localizzare – è oggettivamente uno sforzo piuttosto scarso invece, specie se l’obiettivo massimo doveva essere quello di puntare a un travolgente rilancio. Uno di quelli che certamente non può tollerare un villain come quello di Gabriel Luna, tagliato con l’accetta e avente un carisma inversamente proporzionale al suo potere distruttivo.

Le ambizioni di Miller e della major alle sue spalle, allora, si esauriscono facilmente dietro qualche omaggio e una manciata di battute. In un lavoro che manca di anima, di intenti; goffo nell'imbastire qualunque argomentazione (come quella razziale, legata al Messico: con la speranza e il futuro dalla parte dei buoni e la minaccia artificiale, seminatrice di terrore, dalla parte dei cattivi) e chiaramente costruito a tavolino, con freddezza, proprio come i robot che nel loro film si cerca di fare a pezzi.
Di terminare, appunto.

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