The Irishman - La Recensione

The Irishman Film
Sembra quasi voler chiudere un cerchio “The Irishman”.

Quel cerchio sui gangster-movie di cui Martin Scorsese è sempre stato grande esponente, se non addirittura padre fondatore: andando a riprendere il (suo) capolavoro che fu “Quei Bravi Ragazzi”, per riscriverlo – se così si può dire – attraverso una maturità tutta nuova, che tiene in considerazione la terza età e guarda – involontariamente, dice Scorsese – al “C’Era Una Volta In America” di Leone.

C’era una volta, appunto. 

Un irlandese e Jimmy Hoffa. Robert De Niro e Al Pacino. Due giganti (che si confermano tali), due icone del cinema hollywoodiano che Scorsese – con Joe Pesci e Harvey Keitel – voleva (ri)unire in quello che è un progetto nato più per sé stesso che per noi spettatori, e che gli sarebbe stato più facile fare, paradossalmente, senza la presenza dei suoi amici. Senza la necessità di un de-aging sperimentale, spinto, assai costoso e quindi pericoloso; che, in alcuni momenti, rischia davvero di intaccare la credibilità e il realismo di questa grandissima e lunghissima (209 minuti) storia di una vita. Non bisogna sottovalutarlo, allora, che rispetto al passato stavolta il regista ha sentito il bisogno di forzare la mano; di immergersi in una reunion che è malinconica si, ma allo stesso tempo coerente con un discorso lasciato aperto e che non poteva non essere ripreso e concluso. Perché in “The Irishman” l’esaltazione del crimine si dissolve, sparisce, e con lei anche l'indugiare della macchina da presa sui privilegi e sui lussi che può garantire entrare al servizio di una famiglia mafiosa, scalando posizioni lavoro sporco, dopo lavoro sporco. La parabola del Frank di De Niro, non a caso, è decisamente meno sfavillante e rock di quella che circa trent’anni fa era toccata al suo alter-ego Ray Liotta, ugualmente ricca di successi e di intoppi, magari, eppure resa sul grande schermo con un occhio tendente fortissimamente al ridimensionamento. E non è per una questione morale, assolutamente. Ma a causa di certe sfumature e di certi aspetti che con la vecchiaia – di Scorsese, come dei suoi protagonisti – si fanno notevolmente più nitidi, più chiari, stimolandoti a guardare determinate situazioni, in modo diverso.

The Irishman De NiroCome porre l’accento sul comportamento di una figlia, per esempio. O di una famiglia impaurita dai silenzi di un padre oscuro e violento che si rende conto perfettamente dell’ombra con cui a casa lo identificano, pur non trovando mai il momento adatto per affrontare l’argomento e dargli il giusto peso. Una famiglia che spesso diamo per scontata, trascuriamo, tradiamo, ma che in fondo è l’unica a cui apparteniamo veramente; a cui possiamo aggrapparci quando siamo in difficoltà, in solitudine e che non ha nulla da spartire con l’altra fittizia, acquisita in ambito lavorativo. Una tematica, questa, che in “The Irishman” assume un ruolo marginale in apparenza, ma fondamentale in sostanza; investita e occultata dalla Storia (vera) americana posta in primo piano, ma destinata a diventare cuore indiscusso della pellicola in chiusura, fornendogli quel compimento che, in caso contrario, non avrebbe avuto.

Perché è quando i ringiovanimenti (non perfetti e un pizzico fastidiosi) vengono messi da parte, quando agli attori tocca tornare ad assumere l’età reale e quella ancora più anziana (eseguita con make-up, non in digitale come l’altra) - con la quale si avvicineranno al tramonto -, che quel senso di mortalità e di malinconia percepito smette di nascondersi e si fa palese.

Coi primi piani sulle espressioni di un De Niro in sedia a rotelle – che è come ci viene presentato in apertura – chiamato a fare i conti con una vita della quale, forse, ha afferrato troppo tardi gli errori e i passi falsi. Una vita che non perdona, né lui, né la combriccola dei suoi amici, e che portandogli il conto pare comunicare (e comunicarci) la fine di un’epoca d'oro (anche cinematografica).
La chiusura di un cerchio di cui – senza dubbio – sentiremo la mancanza.

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