Richard Jewell - La Recensione

Richard Jewell EastwoodL’attenzione di Clint Eastwood, negli ultimi anni, è calata profondamente nell'esplorazione di storie vere (americane) dove uomini normali si sono trovati, loro malgrado, a rendersi protagonisti di grandi imprese. Un filone cominciato nel 2016 con “Sully”, proseguito due anni dopo con “Ore 15:17: Attacco Al Treno” e che potrebbe chiudersi – come continuare, chi lo sa? – con l’arrivo di questo “Richard Jewell”.
La composizione di una trilogia ideale, che specie nei due apici, al momento, si è ritrovata casualmente (ma, forse, neanche tanto) a porre l’accento sulle conseguenze terribilmente assurde che hanno visto i cosiddetti eroi, trasformarsi velocemente in potenziali terroristi (o demoni) da smascherare.

Perché raccontando le loro storie, entrandoci dentro, da vicinissimo, Eastwood in realtà racconta anche e inevitabilmente il suo paese: le contraddizioni che lo dominano e quel carattere un po’ impulsivo, quanto brutale, che ne evidenzia i punti deboli e le paure che, solitamente, finge di mettere sotto al tappeto. Un comportamento che – e questo ce lo dice proprio “Richard Jewell” – prescinde dallo shock scaturito dall’attacco alle Torri Gemelle; che fa parte di un’indole ossessionata dalla caccia al nemico, al punto da vederlo ovunque, costantemente, persino dentro casa. Era il 1996, infatti, quando la guardia di sicurezza Richard Jewell intercettò uno zaino sospetto durante le Olimpiadi estive ad Atlanta, avvisò i suoi colleghi del pericolo e limitò i danni di un’esplosione che avrebbe potuto certamente provocare assai più di un morto e 111 feriti. Eppure questo non bastò a scagionarlo, a fare di lui un esempio, il patriota per eccellenza, tutt’altro: portato in cielo dai media, diventò in pochi giorni il primo sospettato dell'attentato. Fu accerchiato dall'FBI, ingannato, interrogato, spiato e costretto, infine, a tutelarsi con un avvocato per non sopperire al circo mediatico e alle pressioni di chi voleva a tutti i costi trovare un colpevole e dimostrare la propria autorevolezza.

Richard Jewell EastwoodIl suo problema, probabilmente, era da attribuire al phisique du role (l'eroe, del resto, ha una sua composizione, ormai).
Ad un background che lo aveva visto essere rifiutato svariate volte da quel ruolo di agente cui ambiva e da episodi leggermente equivoci che ne avevano messo in discussione integrità mentale e attendibilità. Ma tutto, ogni singolo dubbio, era basato su un’unica base: il pregiudizio. Non c’erano prove su Jewell: nemmeno una. Né legata agli eventi di Atlanta, né a precedenti sul lavoro che avrebbero potuto fare di lui un profilo ambiguo. E, forse, sono stati questi presupposti a muovere Eastwood verso di lui, verso la sua parabola, il suo dolore. Quello che, a un certo punto, riesce a uscire quasi fuori dallo schermo e a toccarci in prima persona, quando Kathy Bates, esausta da ciò che è costretta a subire (braccata dalle due maggiori potenze mondiali: gli Stati Uniti e i media), corre a chiudersi nella sua camera per poi scoppiare in lacrime tra le braccia di suo figlio. La finalizzazione di un paradosso che “Richard Jewell” con la severità del codice morale del suo regista – e con una fotografia contraddistinta da luci e ombre – sente il dovere di condannare non senza preoccupazioni: perché, a quanto pare, oggi è più facile prendersela con un innocente che andare in giro a cercare il colpevole.

E per un cowboy come Eastwood; per un uomo (e un ispettore) che ha studiato (e ha imparato) la giustizia, un caso come questo non poteva passare inosservato, né tantomeno restare impunito: visto che come dice lui stesso “quell’uomo era un eroe e la gente deve saperlo”.

Alla stregua di come Eastwood è un grande regista (uno degli ultimi del cinema classico) e chi ancora lo nega è bene che vada a farsi vedere da un bravo medico. E questo, se Clint ce lo permette, ci azzardiamo a dirlo noi.

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