Cattive Acque - La Recensione

Cattive Acque Ruffalo
Il prologo è da film horror.
Un gruppo di ragazzi elude il cancello di una proprietà privata e si concede la bravata di un bagno notturno, all'interno di un lago dalle sembianze sinistre. Un lago dal quale ci si aspetterebbe – per convenzione – la fuoriuscita di qualche creatura, di un mostro alieno (?), ma da cui, invece, vengono messi in fuga non appena due uomini in barca appaiono all'improvviso, rammentandogli l’infrazione. Siamo nel 1975 e l’azienda chimica DuPont ha appena cominciato ad inquinare le acque di Parkersburg, West Virginia, con gli scarichi produttivi del suo Teflon, il materiale – utilizzato prevalentemente per rendere le padelle antiaderenti – che gli consente di fatturare annualmente cifre astronomiche.

Sono i primi indizi di quanto andremo a vedere e del come un regista come Todd Haynes abbia intenzione di raccontarcelo: perché “Cattive Acque” è una storia vera, un fatto di cronaca e, in quanto tale, ha bisogno di mantenere il più possibile un approccio documentaristico, evitando tutte le trappole – commerciali - che questo modello di pellicole, inevitabilmente, pongono lungo il cammino. Quando saltiamo al 1998, allora, quel sapore di paura imminente lascia spazio al thriller, tendenzialmente a sfondo legal, ma non del tutto estraneo a delle tinte psicologiche. Perché quello che può fare Haynes – in attesa di arrivare a ciò che probabilmente lo ha attirato, convincendolo a prendere in mano il progetto – è proprio mettersi a saltellare tra i generi, a mescolare il ritmo, facendosi ispirare dai continui risvolti e dai pericolosi soggetti che l’avvocato Mark Ruffalo raccoglie e coinvolge, briciola su briciola, dopo essersi preso la briga di aiutare un campagnolo ostinato, convinto che nelle sue terre stesse accadendo qualcosa di particolarmente strano (e meschino).
Intuizione che aprì le porte a quello che sarebbe diventato da lì a qualche anno – ma facciamo decennio – uno dei casi legali più grandi della storia, con oltre settantamila persone vittime di avvelenamento e di malattie, per lo più incurabili.

Cattive Acque HaynesEppure non è per via di tale importanza che “Cattive Acque” intende giustificare il suo ruolo. No, quella è una gravità che pesa, ovviamente, ma che ad Haynes non interessa quanto come lo sviscerare quali fossero i motivi che portarono a una così grande dilatazione: puntando i fari su un sistema – quello Americano, certo, ma nel profondo quello capitalista – che, al di là delle evidenti prove scientifiche – e quindi scritte – e di una realtà – terribile – che le consolidava, proseguiva a proteggere e ad assecondare un’azienda chiaramente colpevole, ma di enorme valore (economico) nazionale. Di quelle, insomma, per cui vale la pena permettere il sacrificio di qualche essere umano.
E, allora, come fece Adam McKay ne “La Grande Scommessa”, anche qui c’è la voglia di gridare al mondo, di gridare ai cittadini, di piantarla di aggrapparsi al quel ragionamento secondo il quale le istituzioni, o i grandi colossi, non possano approfittarsi di loro e tradirli (come qualche ingenua vittima non smette di sostenere neppure di fronte alla verità). Il grido del Robert Bilott di Ruffalo – quando sconsolato, dice alla moglie Anne Hathaway, che l’unica soluzione ormai è quella di non fidarsi e di non perdere mai la forza di lottare – è un inno alla sopravvivenza che bisognerebbe appuntarsi e tenere perennemente in tasca.

Perché il mondo in cui viviamo è terribile, inaffidabile, governato da irresponsabili.
E quindi è obbligatoria una nostra supervisione; quella responsabilità che, magari, prima non ci toccava, che non avevamo e che avremmo preferito non avere mai, ma che per bene comune, giustizia e rispetto, è giunto il momento di imparare a sostenere.

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