Favolacce - La Recensione

Favolacce PosterTra i numerosi elementi che non lasciano indifferenti e che colpiscono a vari livelli, in “Favolacce” c’è una battuta che apparentemente è buttata via; che lì per lì ti sconvolge, ma alla quale si tende – in quell'attimo specifico – a dare un peso inferiore, rispetto a quello che si merita. A dirla è uno dei padri della storia, quando, tornato dal suo lavoro di cameriere, racconta al figlio – malato di morbillo e costretto a letto, privo di forze – come è riuscito a convincere quelli del locale a farsi dare alcuni avanzi di pizza destinati a un cane: “Ma quale cane, gli ho detto: io c’ho un figlio. Glie li porto a lui!”.

E non si sta parlando di avanzi in buono stato, di quelli che porti via perché “è peccato buttare”, ma di avanzi morsicati e poi abbandonati, di croste di pizza messe da parte, di scarti: che veder destinati a un essere umano – a un bambino – è oggettivamente spiacevole e penoso (con quell'entusiasmo, poi). Va anche detto, però, che la (seconda) pellicola scritta e diretta dai fratelli D’Innocenzo ci mette al cospetto di famiglie radicate in periferia, una periferia più raffinata magari, fatta di villini e di piscine gonfiabili in giardino, ma che culturalmente, socialmente e economicamente, non si discosta molto dalle caratteristiche che di solito siamo abituati a vedere. E allora puoi intuirlo il motivo che spinge un padre a nutrire il figlio con un pasto che sarebbe stato più consono a un animale; puoi comprendere – anche se in certi casi non proprio, o fino a un certo punto – la rabbia, o in alternativa la dose altissima di fragilità che praticamente tutti gli adulti chiamati in causa prima o poi sfoderano e ostentano: senza rendersi conto di chi hanno vicino e di quanto, quest’ultimi, potrebbero rimanere feriti (fisicamente o psicologicamente). Un mondo che (ci) appare così lontano, fantasioso quasi, e che allo stesso tempo percepiamo come vicinissimo; dove la gioia (di tutti) è utopia e l’angoscia – specie quella narrativa – regina incontrastata. 

Favolacce D'InnocenzoDel resto è un film che vive di parallelismi, “Favolacce”, che mette a confronto presente e futuro, genitori e figli, uomini e bestie, calma e nervosismo. Un film atipico, che si disinteressa di moltissime regole di linguaggio per procedere – acutamente – a istinto e per atmosfere, sostenuto dalla potenza delle immagini, dai volti e dalla costruzione brutta, sporca e cattiva dei suoi personaggi: fondamentale per andare a colpire lo spettatore – terrorizzandolo a volte – mediante l’utilizzo di un grottesco che tuttavia non arriva mai a impossessarsi del proscenio. Un lavoro possibile esclusivamente grazie alla follia, ma pure allo straordinario talento che continuano a sbandierare i fratelli D’Innocenzo: che con la macchina da presa sperimentano e, tra campi lunghi e campi stretti, indugiano per insinuare sventure che non sempre, o per forza subito, andranno a palesarsi. Ciò gli serve per tenere alta quella percezione sinistra e di malessere che avvolge un po’ totalmente e un po’ morbosamente l'intera opera; per costruire quel respiro – nient'affatto gratuito o ricattatorio – utile a donare logica e potenza a un disegno che (ci) sarà davvero chiaro non appena la voce narrante di Max Tortora avrà finito di leggere l’ultima pagina del diario di cui è entrato in possesso. 

Ribadiscono di meritarsi, quindi, tutto l’interesse che avevano cominciato a catalizzarsi addosso dopo l’ottimo esordio de “La Terra Dell’Abbastanza”, i due autori romani. Questa volta rischiando decisamente di più, osando e mettendo moltissima carne al fuoco. Un aumento delle ambizioni bilanciato da una maggior maturazione, che gli consente di non cacciarsi mai nei guai, di tenere saldo il controllo e di non rimetterci le ossa.

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