Mank - La Recensione

Mank Fincher
Scrivere un film che racconti il processo di scrittura che ha portato alla realizzazione di un altro film, è un’idea che, onestamente, incuriosirebbe pochi. Persino se il film in questione è il “Quarto Potere” di Orson Welles, che sì, magari potrebbe aiutare a fare avvicinare i cinefili più incalliti, ma comunque non funzionerebbe come spinta decisiva, volta ad attirare quell’attenzione mancante. 
Però, se dietro a questo film c’è una leggenda – che poi è più un conteso – e dietro a questa leggenda c’è tutto un mondo da scoprire, allora la questione cambia. 
E cambia tantissimo. 

Certo, sicuramente il “Mank” di David Fincher resta un prodotto non per il grande pubblico: lo stanno dicendo i numeri – usciti in questi giorni – ed è palesemente comprensibile anche durante la visione. Eppure ciò non basta a privarlo neppure di un centimetro, del grandissimo lavoro che a tutti gli effetti è: nel quale la leggenda di cui sopra ha quasi un ruolo marginale e di rifinitura, se comparata all’imponente costruzione che va a celarsi dietro. Perché dire che “Mank” parli solo di come è stata realizzata la sceneggiatura di “Quarto Potere” è corretto solo in parte. Nella sceneggiatura scritta (anni e anni fa) da Jack Fincher – il papà di David – c’è molto di più, praticamente la fotografia di un’intera epoca cinematografica: tant’è che per osservarla bene, in tutti i suoi dettagli, sarebbe necessaria ben più di una visione (e nulla c’entra con ciò la meravigliosa scelta del bianco e nero). Alcune cose, però, sono più evidenti di altre, più marcate, specialmente per quanto riguarda quella politica – che ci ricorda qualcosa – che bagnava la Hollywood degli anni ‘30, generando regole non scritte e costruendone un potere la cui portata massima era ancora da testare. 
E gli occhi con i quali approcciamo a questo sistema (ipocrita e aziendalista) sono quelli dell’Herman Mankiewicz – detto Mank – di un mostruoso Gary Oldman, lo sceneggiatore alcolizzato, ingaggiato da Welles come ghostwriter per il suo nuovo film, che ha la caratteristica di faticare ogni qual volta è chiamato a tacere o a censurarsi nel dire cosa pensa veramente (qualità che lo aiuta e lo penalizza, a seconda delle circostanze). 

Mank Oldman
Sostanzialmente “Mank” è la sua di storia, e lo è in termini strettamente personali. 
Dentro ci sono infatti le difficoltà – intime e professionali – di un uomo brillante, arguto e fenomenale nel suo mestiere che, tuttavia, non è capace – e ci prova, magari non tantissimo, ma ci prova – a lasciar correre, lasciarsi sottomettere, a stare al gioco (delle parti). Un uomo che forse, proprio per colpa di quegli angoli che non riesce a smussare (e che nel contesto in cui orbitava le regole imponevano che avrebbe dovuto), trova parziale sollievo e serenità negli effetti stordenti prodotti dall’alcol: il compromesso perfetto per un’autodistruzione lenta e trasversale. Alternando, quindi, tra un presente che lo vede costretto a scrivere a letto per via di un incidente, e dei flashback che ci aiutano a recuperare i tasselli mancanti, scopriamo da dove – e perché – nasce la figura di Charles Foster Kane: le sue origini, il suo percorso di crescita e il suo (auspicato?) epilogo . Trafugati a piè pari (anche se poi cambiati nella stesura definitiva da Welles) dalla figura dell’imprenditore e politico William Randolph Hearst, il quale sostenne (ardentemente) un candidato Repubblicano, diventato poi Governatore della California – guarda un po’ – proprio tramite una campagna elettorale che mirava ad alterare il giudizio della popolazione attraverso i mass-media. 

Chi sperava, allora, di poter mettere finalmente il punto definitivo sulle dispute di una sceneggiatura la cui paternità continua a rimbalzare da una parte all’altra, si sbagliava (sebbene il padre di Fincher pare sostenga più la teoria di Pauline Kael che quella di Peter Bogdanovich). Quello di Fincher-figlio è un lavoro più orientato - perlomeno a primo impatto - a raccontare di Hollywood: dei suoi intrecci diplomatici e sociali che, di fatto, possono – ora più di prima – andare a influire sul destino di un paese, di una pellicola, di un singolo artista, o di un semplice lavoratore che sia.

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