Being The Ricardos - La Recensione

Being The Ricardos Poster


Ci sono storie che sono legate strette alla Storia di un paese; storie che raccontano un’epoca, personaggi, o un momento cruciale che se, magari, non sei informato o ferratissimo su una determinata cultura, rischi di trovare meno interessanti, sconosciute, superflue.
Di queste storie il cinema è pieno, e, attraverso di lui, a noi è consentito il lusso di poterci avvicinare ad esse, scovarle, studiarle, scoprendo addirittura che, nel profondo, alcune - non tutte - sono tutt'altro che distanti, perché universali.

E il “Being The Ricardos” di Aaron Sorkin – se vogliamo – appartiene proprio a questa categoria di storie, così come appartiene – ancora di più – a quella categoria di storie sorkiniane riconoscibili, ormai, da un lasso di tempo strettissimo in cui le cose si susseguono una dietro l'altra. Nella pellicola che (ci) svela da vicino la figura di Lucille Ball, la sua relazione col marito Desi Arnaz e il successo smisurato della loro sit-com, minacciata da chiusura imminente, quel tempo è scandito da un arco di sette giorni: sette giorni in cui le accuse di appartenenza al comunismo, mosse dai giornali nei confronti di Lucille, alzano la temperatura sia sul set che nella vita privata della donna. Una settimana di fuoco nella quale i giornali rilanciano pure sull'infedeltà di Desi nei suoi confronti, con un articolo accompagnato da una foto che, teoricamente, lo scagiona, senza però scacciare via i dubbi, dettati da comportamenti oggettivamente sospetti. Ma si sa’, insomma: the show must go on. E must go on anche se non è sicuro che sarà davvero così. Ovvero se l’alone della caccia alle streghe del periodo - il maccartismo - avrà la meglio su uno share di sessanta milioni di americani – e dico 60 milioni – e se il sospetto di una notte misteriosa sarà sufficiente ad annientare la forza di un amore grande, se non grandissimo.

Being The Ricardos Kidman

Come al solito la carne al fuoco è tanta e come al solito non tutta è messa lì sotto il nostro naso, perché certe cose Sorkin pretende che il pubblico le afferri da sé, senza il bisogno di imboccarlo come si fa coi bambini. Un rispetto che nella scrittura della sua pellicola è sia implicito che esplicito: come ci ricorda la Lucille di una Nicole Kidman assai convincente, quando decide di battersi e di impuntarsi affinché venga modificata una scena del copione, secondo lei – e secondo noi – piuttosto stupida (e offensiva per gli spettatori). Lei che invece stupida non lo è affatto, anzi, semmai talmente intelligente da guardarsi intorno e da studiare bene ogni mossa; capire quando è necessario accettare il “suo ruolo” di donna – imposto da una società intimamente maschilista – e quando fregarsene completamente, ostentando lampi di un femminismo precoce, efficace, ma percepito con sospetto. Ostinata, indomabile, ironica. Nel ritratto di Sorkin, lei, è la classica donna moderna: abile, brillante e confinata in un passato che non le permette di esprimersi come potrebbe e vorrebbe, e quindi condannata a lottare per fare in modo non le venga sfilato nemmeno quel po’ che è riuscita a conquistarsi.
Eppure non c’è solo lei al centro di “Being The Ricardos”, bensì un set intero – compreso delle sue figure orbitanti – sul quale spesso vengono posati sia gli occhi che le orecchie. Ed è proprio grazie a quel set, grazie a quelle scene corali e di condivisione che riusciamo a trovare calore e trasporto; ad uscire dalla politica, dall'America, dalla finzione, accarezzando quella sincerità, quel senso d’unione e d'amore che rendono questa storia più vicina a noi - e perciò più universale - di quanto non possa apparire.

Vedere una compagnia intera stringersi in attesa della sentenza. Sentire confessioni di affetto, parole di supporto, nonostante il giorno prima sembrava dovessero quasi volare coltelli. Rendersi conto che la recitazione – compresa quella della maschera che ci mettiamo addosso ogni giorno – smette di esistere quando in ballo subentra la vita – vera – delle persone, e quanto sia giusto fare testuggine se si ha da proteggere qualcosa di veramente importante, prezioso e unico, sono tutte cose fondamentali e imprescindibili della poetica sorkiniana
Valori a cui si fa fatica a rinunciare e ai quali è facilissimo rimanere aggrappati e incantati. 
Al punto che quando il Desi di Javier Bardem svela il nome di chi è al telefono con lui, nel finale del film, a te viene un lungo brivido dietro la schiena. Un brivido a cui segue il pensiero di come sarebbe bello se tutti i film fossero scritti come quelli di Aaron Sorkin. O perlomeno se tutti i finali dei film lo fossero.

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