Che cosa ha portato Ridley Scott a interessarsi al progetto “House Of Gucci”?
La domanda sorge spontanea, specie quando ci si ritrova di fronte a una pellicola che sembra non avere
altra direzione se non quella di ricostruire fatti realmente accaduti – o così pare, viste le distanze prese negli ultimi giorni dai diretti interessati – in maniera un po’ kitsch e faticando a stare in equilibrio sul quel filo che
dovrebbe tenerla al riparo dall'ombra del trash.
In sostanza una crime-story: con la Patrizia Reggiani di Lady Gaga presentata subito come un’arrampicatrice
sociale che, individuata la preda, riesce a persuaderla fino a integrarsi in quel mondo aristocratico che non
gli apparteneva, ma a cui segretamente aspirava. Un mondo nel quale però è costretta ad agire sempre
attraverso i fili (e i permessi) di un marito – il Maurizio Gucci di Adam Driver – che lentamente e troppo
tardi le si ribella, allontanandola dalla sua vita e ricordandole quanto poco conti senza di lui. Ma
sicuramente non è questa ricostruzione da soap opera ad aver convinto Scott a mettere la sua firma su
“House Of Gucci”, piuttosto deve essere stato il sottotesto relativo alla famiglia e al suo fallimento, compiuto per avidità e protezione nei confronti di un potere immenso e di altrettanto immenso denaro. Non è un caso, infatti, se le parti più convincenti e più interessanti del suo
lavoro siano quelle dove i padri – mai le madri o le donne in generale: e Patrizia, di fatto, è un’intrusa –
cercano di istruire i propri figli, ordinandogli quale posto occupare e come; e quelle in cui i figli si ribellano ai padri (e agli zii), per
dimostrare di valere quanto loro (e quindi di essere all’altezza di quel trono), se non di più.
Un gioco al massacro e controproducente che rimanda – con le dovute misure, è – alle dinamiche mafiose
de “Il Padrino” (e surrogati), con la differenza fondamentale che in questo caso la guerra è interna e ogni mossa è
dettata da colpi di vanità e di stupidità, utili solo ad auto lesionarsi e a perdere terreno. Economico e sociale.
Per certi versi, allora, la figura di Patrizia – la serpe, il villain – diventa solo una delle possibilità innumerevoli
che avrebbero potuto danneggiare questo castello di carte già traballante: e l’unica,
paradossalmente, ad avere a cuore l’attaccamento per il brand, piuttosto che per lo scettro e l'apparenza. Disegno che va a comporre un
quadretto della situazione drammaticissimo, ma che visto dall’esterno – e quindi con gli occhi di Scott – può indurre anche a scatenare qualche ghigno, a disarmare, a far emergere un assurdo degno di nota: ed ecco spiegata, forse, la scelta di un certo tipo
di leggerezza di toni a cui il film si aggrappa, seppur a corrente alternata.
Ed è un po’ il bello e il cattivo tempo di “House Of Gucci”, questo: che nel suo genere – quello appunto di soap-opera-a-tinte-trash-dal-budget-estremo – funziona pure oltre ogni aspettativa, stonando appena, ma che fatica a trovare
quell’omogeneità e quel senso di compattezza e armonia che dentro un’opera di due ore e quaranta minuti di durata non
dovrebbero mai mancare.
Trailer:
Commenti
Posta un commento