Credo sia l’aggettivo migliore per definire questo remake cinematografico di “West Side Story”, semi-copia carbone
dell’originale a cui Steven Spielberg non osa cambiare nulla, se non una virgola, magari (ma sempre per un fattore di completezza). Un segnale di rispetto, sicuramente, di riconosciuta grandezza; di importanza culturale e popolare, ma
pure – e soprattutto, forse – di dolorosa attualità: perché passato più di mezzo secolo, nulla sembra essere
cambiato.
La stupida rivalità tra i Jets e i Sharks è sopravvissuta, prosperata, sviluppandosi oltre e senza di loro.
Bande opposte di questa Upper East Side di New York che non vogliono smetterla di minacciarsi e di picchiarsi (a morte) in nome delle origini e del colore della pelle – americani i primi, portoricani i secondi – perché convinti ciò
basti a rivendicare un territorio (di nessuno) che presto sarà riqualificato, costringendoli a fare i bagagli per lasciare spazio a
famiglie ricche e benestanti. Una guerra tra poveri, insomma, con in palio un pugno di mosche e la misera
gloria personale: nella quale, tuttavia, riesce comunque a nascere il principio di un amore (un fiore), che però dovrà
vedersela coi pregiudizi e con le regole che impediscono alle due fazioni di provare sentimenti (positivi) tra
loro. Il riferimento al “Romeo e Giulietta” di Shakespeare è esplicito e dichiarato, allora, così come quello all’odio
e all’intolleranza che rende questa storia praticamente senza tempo. E non serve nient’altro per
intuire il motivo che ha portato Spielberg a bagnare il suo esordio nel musical ponendo la sua firma proprio su
questo titolo, accettando il rischio del paragone e della sana e inevitabile competizione.
Fermo restando che, seppur sia un debuttante – tolto uno sfizio, provato in passato con Indiana Jones – del genere, l’impressione percepita è che abbia fatto questo per tutta la vita (che poi è la verità, in sostanza: perché l'affermazione che se mastichi cinema puoi girare qualsiasi cosa, è molto più che una teoria da certificare).
Fermo restando che, seppur sia un debuttante – tolto uno sfizio, provato in passato con Indiana Jones – del genere, l’impressione percepita è che abbia fatto questo per tutta la vita (che poi è la verità, in sostanza: perché l'affermazione che se mastichi cinema puoi girare qualsiasi cosa, è molto più che una teoria da certificare).
E il suo “West Side Story” è esattamente come ce lo si poteva aspettare: classico, meticoloso e con un tocco di
modernità che è maggiormente dovuta alle possibilità scenografiche e tecniche, ora superiori a quelle
dell’epoca. Persino i volti sono stati scelti con cura, evitando volontariamente un casting di nomi pesanti, o di
una star che potesse attirare troppo su di sé interesse e luci della ribalta: perché l’attenzione qui deve
essere orizzontale, totale, e i personaggi (le loro trame) sono solo un mezzo, non il fine (del racconto). Un
lavoro da perfezionista, da Maestro, rispecchiato ovviamente anche nelle coreografie di ogni singola
canzone (e di ogni singolo movimento scenico): dove tutto è elegantemente e rigorosamente coordinato e puntuale. L’estetica è una componente fondamentale, del resto, ed è lampante come la volontà sia quella di ricreare un ibrido che richiami un po’ al palcoscenico teatrale, con sfondi quindi capaci di essere sì, imponenti e maestosi, ma pure essenziali e in
grado di non disperdere o di alterare l’atmosfera e l’anima dell'opera originale: alla quale Spielberg dimostra di essere
attaccato quasi sacralmente e legato stretto da una poetica condivisa.
Finché c’è odio, non può crescere amore.
Messaggio chiaro e forte, come semplicissimo da afferrare (eppure a tutt'oggi ignorato). Da ribadire, evidentemente, e da ampliare in maniera plateale con quella virgola, a cui accennavo in apertura, che vede l’aggiunta di un co-protagonista
transessuale (che non trova mai schieramento, voce e - di conseguenza - posto nel mondo: nonostante si riveli essere il più umano) che, in qualche modo e senza trasformarne la spina dorsale, rinnova la potenza di una storia,
di per sé ancora fresca e immortale.
Purtroppo, o per fortuna.
Trailer:
Commenti
Posta un commento