Spencer - La Recensione

Spencer Poster Film

Il biopic, oggi (e con oggi intendo da circa un decennio, ormai), è diventato una gara in cui a vincere sembra essere solamente chi lavora nella maniera meno convenzionale possibile.
La sfida al racconto di una vita, di un carattere o di un’icona, eseguita attraverso la creatività, l’ingegno e la fantasia. Una strategia che permette – se eseguita a dovere, sia chiaro – di tirare fuori dei ritratti maggiormente coinvolgenti e affascinanti, attirando nella sua ragnatela persino autori di un certo calibro, disinteressati a svolgere il cosiddetto classico compitino.

Tra questi (per fortuna), c’è Pablo Larrain.
Il regista cileno che le parole classico compitino, probabilmente, non ha mai saputo nemmeno che cosa significassero. Il suo battesimo al genere è arrivato con “Jackie”, circa sei anni fa, e già quell’approccio andava a tracciare una linea ben definita, rispetto al suo modo di interpretare e di filtrare determinate storie. Perché, in fin dei conti, con “Spencer” non lo vediamo fare altro che prendere quella stessa linea e proseguirla, allungarla, analizzando il privato (il segreto) e l’emotività di una seconda donna che con la morte – consciamente e non – stava ancora flirtando. Per (la mente di) Larrain è sufficiente tornare alla fine di dicembre del 1991, e precisamente nei giorni della Vigilia, di Natale e di Santo Stefano – i tre capitoli con cui fraziona il suo film – per inquadrare il profilo di Diana Spencer. Un momento cruciale nel quale gli aspetti fondamentali del suo conflitto (interno) emergono violentemente, facendosi indiscutibili e angoscianti, e preannunciando, in pratica, i risvolti di un futuro che sarebbe divenuto presente di lì a pochi anni. La rigidità, la strutturazione calcolatissima di quel mondo – del mondo Reale – infatti cominciava a stargli stretta, a sopprimerla. Il suo istinto di sopravvivenza la spingeva ad allontanarsi, a ribellarsi alle regole, ma dietro di lei c’era sempre qualcuno pronto a stanarla e a rimetterla al suo posto.

Spencer Larrain

Manca l’aria.
A lei e pure a noi, quando la vediamo provare a ritagliarsi i propri spazi e puntualmente a essere inseguita, spiata, incalzata. Quando la servitù – e non solo – gli ripete che in quelle mura tutti sentono e tutti vedono, sottendendo che non c’è via di scampo, né ancora di salvezza, se non quella di arrendersi al suo ruolo e cominciare a recitarlo secondo copione imposto. Una principessa in gabbia. In prigione. Anzi, non una principessa, ma una donna e una mamma. Gli unici abiti che Diana si sentiva davvero addosso e che aveva piacere ad indossare, ad assolvere. I suoi momenti coi figli, molti dei quali confidenziali, sono gli unici dove l’armonia e il sorriso riescono a trasparirle in volto, annullando quella tristezza e quei tormenti che lentamente e pericolosamente la scollano dalla realtà, avvelenandole i pensieri.
Un destino scritto, il suo: come quello della sua discendente Anna Bolena.
Appreso dal libro che appare bruscamente sul suo letto - quasi a profetizzare un fatale corso degli eventi - e che Larrain utilizza per inserire un alone spettrale e disturbante che va a trasformare “Spencer”, a tratti, in un thriller psicologico vero e proprio: chiamando in causa la Storia e le informazioni in possesso di noi spettatori.

Libertà, leggerezza, risate. Amore.
L’impressionante – per somiglianza e interpretazione – Diana di Kristen Stewart aveva perso ogni briciolo di queste emozioni. Con il Principe Carlo, la Regina e la corte-tutta, assai più preoccupati a domarla di prepotenza che a comprenderla. E l’affetto della domestica di Sally Hawkins - seppur non isolato - non sufficiente a compensarne il vuoto, la solitudine.
Un vuoto che Larrain dall’alto della sua bravura, riporta sul grande schermo tramite un biopic realizzato in forma egregia, esemplare. Che chiude il suo tributo tra gli entusiasmi di una scena splendida, che ci restituisce una Diana rassegnata, eppure svincolata, e per questo felice, di aver conquistato, finalmente, un frammento del (suo) presente.

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