The Batman - La Recensione

The Batman Poster

Ripartire con Batman dopo Christopher Nolan.
Dopo Ben Affleck.
E, perché no, dopo il Joker di Joaquin Phoenix.
A Matt Reeves l’arduo compito. 
Lui, l’uomo che ha riportato in auge – e bene – la saga del Pianeta delle Scimmie, che è riuscito a non rovinare “Lasciami Entrare”, pur facendone un (instant) remake. Uno, insomma, che quando c’è da sporcarsi le mani è il primo a tuffarsi nel fango, senza neppure chiedersi quanto è profondo.

Ecco, il fango, appunto.
E, forse non è un caso che il suo “The Batman” cominci nella merda. Quella metaforica, incasinata, di una Gotham che lo stesso Bruce Wayne – in voice over – commenta come una città in balia di sé stessa e impossibile da salvare. Ma lui deve provarci, deve provarci lo stesso. E deve provarci anche Reeves: non a salvare l’uomo pipistrello, ovviamente, ma a portare a casa una sfida che, si vede, aver preso molto sul personale, a cuore e sul serio (troppo sul serio?). E se necessità fa virtù, allora il suo Batman deve per forza fare il detective: per differenziarsi, per prendere le distanze, e pure perché – diciamocelo – come genesi è contemporaneamente fedele (al fumetto) e intrigante. Lo fa indagando su una serie di omicidi alla Jigsaw, quell’Enigmista che non è esattamente il prototipo conosciuto nei fumetti della DC, ma che qui viene preso in prestito almeno come modus operandi, perché in linea con l’atmosfera, col tono cupo e dark della storia e con un linguaggio cinematografico di riferimento che, per come è stato pensato, gli casca a pennello. Un Enigmista che deve bonificare Gotham dal marcio, dalla corruzione e dalla mafia: il che lo rende un po’ criminale e un po’ giustiziere. Ed è un’impronta che funziona; che quando arriva a marcare prepotente il prologo – bellissimo, il suo primo omicidio – promette di ribaltare completamente aspettative e mito, avvicinando la pellicola a una sorta di Sherlock Holmes in calzamaglia, diretta da un discepolo di David Fincher.

Fino a qui tutto bene, diceva qualcuno.
E, per certi versi va ancora meglio quando cominciamo a radunare le informazioni su chi (non) sia il nuovo Bruce Wayne: che più che Batman, preferisce presentarsi al nemico come Vendetta. Un uomo tormentato, disperato, (emo!) alla ricerca di sé stesso e per questo molto più a suo agio dietro la maschera che in carne ed ossa (panni in cui lo vediamo pochissimo). Un Robert Pattinson convincente, sbalorditivo, che riesce a trasmettere il suo conflitto interno con la sola espressione degli occhi, spesso inquadrati da vicinissimo dalla macchina da presa. E sarebbe bastato questo a rendere il “The Batman” di Reeves qualcosa di rilevante, di persuasivo, di inedito. Con una trama degna dei migliori thriller in stile “Seven” o “Zodiac” – vabbè, in stile Fincher, dai – sullo sfondo e l’attesissimo colpo di scena pronto a sparigliare le carte nel terzo atto (che c’è, è).
Però non era abbastanza ambizioso come progetto, a quanto pare.
Non era abbastanza grande.
Mastodontico, come rilancio.

The Batman Pattinson

Ed è qui che le cose iniziano a scricchiolare.
Perché quando la carne al fuoco che hai è sufficiente a fare una bella grigliata - una di tutto rispetto - e tu decidi lo stesso di aggiungerne il doppio, perché miri a fare una grigliata straordinaria, il rischio è quello che qualcosa vada storto e si brucino dei pezzi.
E a Reeves dei pezzi bruciano. Non carbonizzano, ma bruciano.
Il problema, tendenzialmente, è a monte: un cine-comic – qualunque cine-comic – non può permettersi il lusso di durare tre ore. Mai. Non esiste eccezione alla regola.
Superare le due ore, le due ore e mezza (?), è sinonimo di aver completamente perso il lume della ragione, il senso della misura. E, infatti, se “The Batman” arriva a toccare una lunghezza così ampia è perché quelle influenze fincheriane di cui parlavamo prima finiscono per prendergli troppo la mano. Reeves ci si innamora, ci perde la testa e, insieme, la bussola. Il terzo atto della sua sceneggiatura va a sbloccarsi tardi, eccessivamente. Un blocco residuo che nell'economia del racconto rischia di farsi indigesto, di pesare negativamente, sul ritmo e sulla generosa pazienza di noi spettatori.

Non importa se faccia tutto parte di un disegno vastissimo e coerente. Magari, architettato con chissà quale fatica e con chissà quale quale sforzo. Le ambizioni artistiche di Reeves sono palesi, il suo talento indiscutibile, e sicuramente l'intero lavoro eseguito - sulla regia, la fotografia, i personaggi - apprezzabilissimo, meticoloso, nonché valore aggiunto. E' un dato incontrovertibile, tuttavia, che la scelta di presentarsi con tale imponenza e con propositi così esorbitanti non sia spontanea, ma figlia di inevitabili paragoni coi quali immancabilmente ci si sarebbe andati a confrontare (a scontrare?): e ogni riferimento alla saga di Nolan non è puramente casuale. Ombre invisibili talmente ingombranti da somigliare a quelle che invadono puntualmente le luci del (suo) film. Uno spettro che, se non era possibile ignorare, bisognava almeno provare a guardare con un pizzico di leggerezza.
Un termine che a questo "The Batman" manca tantissimo e che gli avrebbe fatto comodo.

Ma evidentemente, secondo Reeves, era questa l'unica via da percorrere per tirarsi fuori dalla merda in cui si era (volontariamente) cacciato. La via necessaria per entrare in quel Rinnovamento di cui tanto parlano i suoi personaggi e che termina, guarda un po', proprio in mezzo al fango (letteralmente): quel luogo dove lui era già abituato a nuotare e che potrebbe fungere da buon auspicio per un futuro migliore, affascinante e tutto da scrivere.
Con meno pagine, nel caso.

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