Raging Fire: Fuoco Incrociato - La Recensione

Raging Fire Poster Ita

Ve lo ricordate “The Departed”?
Il film di Martin Scorsese con DiCaprio e Matt Damon poliziotto e criminale, infiltrati l’uno nella banda dell’altro? Ecco, quel film era il remake di “Infernal Affairs”, thriller cinese noto ormai quasi a chiunque, ma che nel 2006, conoscevano ancora in pochissimi (e io non ero tra quelli).
Sarà che verso il cinema orientale, nel nostro paese, c'è sempre stato un pizzico di pregiudizio, una mancanza di appeal, un approccio ostico – fortunatamente diminuito, negli ultimi anni – che ha impedito (e che impedisce) di farci rendere conto di quanto i loro prodotti possano essere qualitativamente immensi ed originali. Un dettaglio che, per esempio, agli americani – furbi – non è sfuggito affatto.

E chissà se (loro) avranno già messo gli occhi su una perla come il “Raging Fire: Fuoco Incrociato” di Benny Chan, un action hongkongese altamente – e letteralmente – spettacolare, che non si risparmia neppure di costruire al suo interno una trama solidissima e tesissima, capace di ragionare sull’etica e sulla morale, a vari livelli. C’è un poliziotto incorruttibile, infatti, che deve fare i conti col suo discepolo appena uscito di prigione, perché qualche anno prima – quando era un poliziotto in ascesa – si è fatto prendere la mano, uccidendo un sospettato durante una missione. Incidente del quale lui e la sua squadra sono responsabili, ma non completamente condannabili. Ed è questa sfumatura fondamentale ad alzare la posta in gioco; a trasformare la pellicola in un revenge-movie che si fonde al gangster-movie: dove bene e male, per quanto perfettamente distinguibili e separati, restano comunque contaminati a vicenda e mai assoluti. Perché entrambi i protagonisti devono convivere col peso di alcune scelte fatte senza considerare l’esistenza di quella che, di solito, viene definita come zona grigia, ovvero quella sfumatura che tende a suddividere ciò che è bianco da ciò che è nero e che, teoricamente, secondo il loro codice, non dovrebbe esistere quando si parla di istituzioni, criminalità e giustizia.

Raging Fire Benny Chan

Il corto circuito destabilizzante; quello che va a ridefinirli e a ridefinire il loro (nuovo) rapporto. A rendere complesso e per nulla scontato un conflitto non gratuito, bensì provocato e quindi – tornando alla questione della morale – da gestire con un occhio di riguardo, altrimenti assente. Il poliziotto di Donnie Yen sa di essere in parte responsabile della discesa agli inferi del suo (ex)amico – interpretato da Nicholas Tse – e, di conseguenza, non può essere spietato e freddo fino in fondo come la sua reputazione lo vorrebbe. Devono accadere delle cose, delle cose gravissime, per fare in modo che lui metta da un lato i sentimenti e cominci ad agire seguendo il linguaggio della divisa: quella stessa divisa che, nel frattempo, non smette di tradirlo e di deluderlo. Dinamiche che aumentano il pathos, che aumentano l’azione e che permettono a Chan di sbizzarrirsi con gli inseguimenti, le sparatorie e le arti marziali (roba da stropicciarsi gli occhi). Di omaggiare alla grande il genere di riferimento e di approfittare dell’opportunità per strizzare l’occhio pure a Michael Mann – e come dargli torto – tenendo perennemente sotto controllo il ritmo, la tensione e i livelli di adrenalina.

Un lavoro che rasenta la perfezione, il suo.
Che ti prende, ti sconquassa e ti fa divertire e sbalordire senza mollarti un secondo.
Un lavoro che non ci sarebbe da stupirsi se, in futuro, dovesse seguire la falsa riga (e il successo) tracciata da “The Departed”. Ma, soprattutto, un lavoro che assume un significato particolare, perché per Chan rappresenta anche l’ultima regia: scomparso, purtroppo, a poca distanza dal termine delle riprese.

Trailer:

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