Il Pataffio - La Recensione

Il Pataffio Poster

C’è un Marconte in viaggio verso il suo nuovo feudo, una moglie desiderosa di consumare il suo matrimonio e un gruppetto di soldati e cortigiani improvvisati che cercano di obbedire agli ordini come meglio possono.
Siamo all’incirca nel Medioevo e intorno al Castello – fatiscente – che dovrebbe segnare l’inizio di un lungo(?) regno, ci sono solo dei villani affamati che non intendono sottomettersi al potere di nessuno.

E’ l’incipit de “Il Pataffio”, il romanzo di Luigi Malerba, adattato (liberamente) per il grande schermo dal regista e sceneggiatore Francesco Lagi. Una storia grottesca, strampalata, parente lontana de “L’Armata Brancaleone” di Mario Monicelli, con cui condivide anche il dialetto maccheronico – qui un misto tra romano e latino – parlato dai protagonisti. Il manifesto di un’umanità bieca e opportunista che, al di la delle classi sociali, ci dimostra come, in fondo, siam tutti fatti della stessa pasta. Chi era povero e ora è ricco, non vede l’ora di utilizzare il proprio potere per vessare e sfruttare i più deboli. L’uomo di fede, è in realtà una bandierina pronta a sventolare laddove batte il vento (con l’unico scopo di fare i suoi stretti interessi, rinnegando persino le sacre vesti). Mentre il popolino, resistenza granitica contro i padroni, si sbriciola come un biscotto inzuppato nel latte, davanti alla prima – e misera – offerta di tentata corruzione. Ci vuole poco, allora, per intercettare nei personaggi e nel paese desolato e desolante – dove crescono solo sassi – proposto da Lagi, l’Italia di oggi: quella in cui chi Governa non è in grado di governare e chi dovrebbe scegliere, non vede l’ora di svendersi, fregandosene dei suoi simili (e del futuro).

Il Pataffio Film Lagi

La verità è che tali comportamenti - sembra suggerirci Lagi - fanno parte dei nostri istinti, della nostra cultura, e continueremo a portarceli dietro, a prescindere dai riferimenti e dalle epoche (fittizie o concrete). Non c’è nessuno, infatti, che salva la sua reputazione ne “Il Pataffio”, tranne magari il consigliere di Giorgio Tirabassi, che sembra quasi consapevole del suo essere guitto e quindi in pace con la direzione che, ad un certo punto, dovrà prendere il suo destino. Gli altri si credono ognuno più furbo dell’altro (più intelligente, anche): che sia per colpa dell’ignoranza, o per necessità di sopravvivenza e spirito di codardia. Valori di una società indisciplinata che difficilmente riuscirà a costruire qualcosa di buono, a crescere e a vivere in armonia con sé stessa: e forse condannata a obbedire a chi è pronto a dominarla col sentimento della violenza.
Eppure, per quanto un verdetto del genere possa risultare drammatico e senza speranze, “Il Pataffio” ha il pregio di mantenere i suoi toni perennemente sulle frequenze leggere della commedia. Di giocare con le sue pedine e con le beffe in serbo per loro, come un bambino spensierato farebbe con la sua collezione di giocattoli: non minando il buon umore di chi assiste, ma impegnandosi a stimolare la risata (amara).

E quindi scorre così, la pellicola di Lagi.
Liscia e briosa (e malinconica) com’è stata programmata, e non per forza obbligata a dover stimolare o a produrre chissà quale sorta di paragone sociale (moderno e universale).
Che poi sia davvero ipocrita, da parte nostra, non sentirci chiamati in causa, di fronte a determinati comportamenti e a determinati raffronti, è un discorso a parte.
Oppure no. 

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