Bones And All - La Recensione

Bones And All Film

Il termine bones and all definisce un rito di passaggio.
In sostanza è quando un cannibale mangia, da solo, fino all’ultimo resto della sua preda.
Un’impresa assai meno frequente di quanto ci si possa immaginare, perché essa racchiude in sé il pieno possesso di una consapevolezza, capacità di affermazione e orgoglio di essere.

Condizione sociale che nel mondo in cui ci accompagna Luca Guadagnino è tutt’altro che conquistata. I suoi cannibali, infatti, sono per lo più esseri fragili, silenti, indifesi. Non tutti, ovviamente, ma la maggior parte cercano di confondersi e di vivere una vita comune, di reprimere i loro istinti e nascondersi, se necessario. E questo perché lo sanno che le persone normali, là fuori, li considerano dei mostri; che per loro non c’è e non ci sarà mai integrazione, comprensione, o futuro. E, allora, quando succede – perché succede – che per necessità e tendenza debbano cedere alla loro natura lo fanno sempre sentendosi in colpa, seguendo dei codici personali, degli ideali che, in qualche modo, riescano a farli sentire meno cattivi, meno sbagliati. Ed è un processo che non fa sconti a nessuno, che si parli di adulti oppure di adolescenti: come apprendiamo durante il viaggio lungo le strade del midwest, percorso da Maren e da Lee.
Due anime sole alla ricerca di affetto – e di amore – e di un (loro) posto nel mondo, costrette anche a fare a meno del supporto dei propri genitori: lei perché suo padre ha appena deciso di arrendersi e di abbandonarla al suo destino – forzandola a mettersi sulle tracce di una madre che, forse, ha le sue stesse inclinazioni – e lui perché reduce da un ambiguo fatto di cronaca, dal quale è stato sì scagionato, ma conservando sospetti da parte di molte persone.

Bones And All Guadagnino

Potremmo paragonarlo, quindi, a un pasto completo “Bones And All”, considerando i tanti ingredienti contenuti al suo interno, che vanno ad arricchire il suo valore (nutrizionale) e le sue (profonde) ambizioni. Dentro la pellicola di Guadagnino sono racchiusi un mucchio di generi: c’è l’horror, il romance, il coming of age, l’on-the-road. E ciò consente al regista di avere margini di manovra larghissimi; di mischiare e di alternare più situazioni, spostando gli equilibri e colorando a piacimento il telo della narrazione, attribuendogli maggior spessore. Un pregio che, probabilmente, alla lunga tende a trasformarsi più in un difetto, però. O meglio ancora in una limitazione. E non tanto perché Guadagnino perda le redini del suo film, quanto per come si lasci trasportare e distrarre – comprensibilmente, magari – dall’enorme affetto nutrito verso i suoi protagonisti. Tant’è che dopo l’esplosione emotiva provocata dall’introduzione (bellissima) di Maren, è netta la percezione di un appiattimento, di un plateau discendente che stempera le aspettative e le premesse di partenza, edulcorando e ammorbidendo una storia che aveva nell’horror i suoi battiti migliori (e lo testimonia la potenza di alcune scene).

E chissà se questa svista (?), questa predilezione verso i sentimenti e il calore non sia stata dettata da quello che palesemente vuole essere, poi, il sottotesto dalla pellicola. Che rappresenta, a suo modo, un inno alla diversità e all’accettazione di noi stessi. Un diritto da conquistare con ferocia in mezzo a una società che tende ad esagerare e a puntare il dito contro coloro che riconosce come mostri, ma che, in fondo, non sono poi così diversi da quei mostri che siamo noi tutti.

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