Molto Forte Incredibilmente Vicino - La Recensione

L'ultimo lavoro di Stephen Daldry ha visto subire un ridimensionamento inaspettato rispetto a quelle che erano considerate le previsioni iniziali. Annunciato tra i principali concorrenti per la corsa ai passati Oscar, "Molto Forte Incredibilmente Vicino" alla fine ha dovuto arrendersi e lasciare spazio ad avversari migliori di lui, ricevendo (forse) a sorpresa solamente due nomination: una per il miglior attore non protagonista e l'altra per il miglior film, attribuita, pensiamo, più per cortesia che per merito.

Il fatto è che l'argomento "11 Settembre", in America, ancora oggi è considerato una ferita.
Aperta o cicatrizzata che sia, comunque delicatissima e troppo, troppo importante per essere trascurata o trattata con mero interesse.

Potrebbe sembrare insensibile quindi affermare ora che quella di Daldry sia un'opera tutt'altro che profondamente emotiva e commovente ma anzi principalmente furbesca e ricattatoria, intenta ad accaparrarsi meschinamente l'approvazione del pubblico raccontando una storia di perdita e di difficile accettazione mettendo al centro un bambino di sette anni divenuto orfano di padre a causa dell'attentato alle torri gemelle. E se questo bambino poi è messo lì a rappresentare l'America, quella del colpo subito, debole e insicura, aggrappata alla ricerca disperata di significati e risposte, tutto lascia pensare ad una scelta progettata appositamente a tavolino impostata a scaldare cuori.

Che poi, a remare contro "Molto Forte Incredibilmente Vicino", non è tanto la preferenza di puntare su una storia rivolta colpire e scuotere trasversalmente l'intero paese americano smuovendo corde piuttosto sensibili, quanto il ricercare, spesso forzatamente, di calcare la mano scivolando in maniera volontaria su un uso di retorica fastidiosa allegata anche al didascalico che spinge ulteriormente il pedale sul messaggio del film senza effettivo bisogno. Preferibile allora costruire una storia onesta e sincera, priva di rimarchi e riferimenti post-attentatori triti e ritriti.

Tratto dall’omonimo romanzo di Jonathan Safran Foer, l’ultimo film di Stephen Daldry quindi non centra pienamente i suoi obiettivi, lasciando un segno profondo solamente con l'interpretazione del meritatamente nominato all'Oscar Max von Sydow, bravissimo a caratterizzare il suo personaggio senza neppure il bisogno di emettere alcun suono vocale. Poco da dire invece sulla breve presenza di Tom Hanks e su quella leggermente più estesa di Sandra Bullock, discreto il lavoro eseguito dal bambino Thomas Horn.

Concludendo dunque, la sensazione molto più forte e incredibilmente vicina è che questa pellicola arrivi in pesante ritardo considerati i tempi. Forse l'America oggi ha superato, per quanto poteva, lo shock subito più di dieci anni fa e il cinema ha affrontato ormai argomenti simili fino alla nausea. Abbastanza perlomeno da recepire adesso qualsiasi messaggio di reazione in maniera decisamente molto meno urgente rispetto a quanto sarebbe potuto avvenire qualche anno fa.

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