La Vita di Adèle - La Recensione

La scoperta della sessualità di una giovane ragazza, il consecutivo abbraccio dell’amore omosessuale, la convivenza di quell'amore in maniera passionale, intensa, sana, per niente diversa da una relazione considerata ordinaria secondo le più antiche regole sociali.

L’ultimo film di Abdellatif Kechiche racconta esattamente questo, seguendo da vicinissimo - con primi piani spesso compiuti camera a mano - la vita della protagonista Adèle: dalla fase conclusiva della sua adolescenza fino a scivolare poi, con naturalezza, nell'esperienza del sesso più esplicito, nella vita di coppia e nelle felicità e sofferenze di una donna e della (sua) esistenza. Il regista arabo, naturalizzato francese, con impressionante tocco magico e calamitato cattura in blocco il nostro spirito e lo proietta in questa storia meravigliosa, sostenuta con estrema delicatezza anche nei suoi momenti più duri e dove vien ribadito il concetto semplice quanto sfuggente del vivere ogni amore in maniera istintiva e priva di qualsivoglia regola.

Trasuda sensualità "La Vita di Adèle" e non solo per le lunghe scene di sesso lesbo che poco, anzi pochissimo, tralasciano all'immaginazione, la sensualità più grande, vorace - per usare un termine appropriato - è quella a profusione continua dell'attrice protagonista Adèle Exarchopoulos. Il suo volto affascinante e in carne è il modello perfetto per appoggiarci sopra i rimandi e le sensazioni urtate lungo quel percorso a lei completamente nuovo e annebbiato, incomprensibile per molti dei suoi coetanei, e da gestire allora assolutamente con estrema indipendenza, assorbendone difficoltà e tenendo testa ai pregiudizi. Con una esposizione così impostata il lavoro di Kechiche però non può soffermarsi ad esprimere esclusivamente il tabù dell'omosessualità, che con fare intelligente non rende affatto esageratamente anomalo o complicato, e si prende la possibilità di andare a dibattere verso altri piccoli nodi ad esso legati per affondare ancor più il coltello sull'amore, i suoi riguardi e le scelte spesso dolorose a cui veniamo chiamati a rispondere pur non avendone preparazione.

Così, senza perder neanche il suo feticismo notificato verso il cibo – che gli ha fatto realizzare il bellissimo "Cous Cous" – il regista non si scolla mai dal volto del suo soggetto, segue Adèle incondizionatamente, ne suggerisce gli stati d'animo, manifesta proprio con la fame nervosa il suo perenne contatto con paure e ansie. Fa scorrere il suo flusso vitale nel tempo, spontaneamente, senza stacchi o informazioni, delineandone la maturazione con una maestria e una semplicità disarmante che quasi ne nasconde il processo di crescita rendendolo impulsivo e reale agli occhi dello spettatore.

Conosciamo quindi Adèle tra i banchi di scuola, minorenne intimorita, attratta da una ragazza più grande già emancipata che gli fa perdere velocemente la testa, ma la lasciamo al termine del suo tragitto donna fatta e finita, un'insegnate, che si conosce, sa chi è e fin dove può spingersi. Qui Kechiche decide allora che può bastare, mette i puntini di sospensione e abbandona questa ragazzina-ora-donna (ma anche noi) sospesa, incompleta e ferita, forte di risposte sul suo presente ma sprovvista di quelle sul suo futuro. Fortificando, con il finale tra le vie della strada, la riflessione di un cammino incessante seppur pieno di incertezze. Un cammino che riguarda tutti. Nell'amore, nella vita.

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