Selma: La Strada Per La Libertà - La Recensione

La protesta non violenta per la conquista dei diritti civili ad opera di Martin Luther King ebbe passaggio cruciale a Selma, cittadina dell'Alabama da cui partì, dopo minacce, uccisioni e lotte, la marcia verso Montgomery che nel 1965 fu ricordata per sempre per via del discorso Storico che l'attivista politico tenne ai suoi sostenitori, dove annunciava la vittoria (e la fine) di una battaglia estenuante e dolorosa per un diritto al voto che l'America continuava a non voler concedere ai neri.

La regista Ava DuVernay allora con il suo "Selma: La Strada Per La Libertà" rispolvera attentamente quella brutta pagina di Storia americana dal punto di vista di un Martin Luther King insicuro e stanco, consapevole dei passi avanti conquistati verso un potere che finalmente comincia a riconoscerlo, ma ancora lontano dalla meta prefissata che dovrebbe consentirgli di fare approvare le sue, legittime, richieste. Come il "Lincoln" di Steven Spielberg - con il quale condivide Paul Webb alla sceneggiatura - la pellicola della DuVernay è girata principalmente in interni, quelli in cui si discute sia su come agire e reagire e sia su come limitare o risolvere le questioni politiche portate alla base. Ma rispetto a quel film di due anni fa, dove l'azione dei dialoghi e le strette di mano politiche erano sufficienti a risolvere il problema della schiavitù, in questo caso ad essere decisivo e a fare la differenza, scrivendo la Storia, è il mezzo di comunicazione di massa per eccellenza, quella televisione che trasmettendo le immagini violente di uomini neri, indifesi, picchiati a sangue e uccisi senza alcun motivo specifico da guardie bianche armate, mobilita la maggioranza di una nazione a schierarsi in favore di una stessa causa, costringendo un Presidente, inizialmente poco interessato alla questione, a comprendere le urgenze di una legge indispensabile e imparziale.

E' senza alcun dubbio una pellicola di finzione a sfondo documentaristico dunque "Selma: La Strada Per La Libertà", una di quelle che spesso l'America ama produrre per imprimere a fuoco i suoi progressi e soprattutto per sensibilizzare ulteriormente un pubblico che raramente fatica ad entrare in empatia con racconti di questo tipo. Si tratta forse del lato più debole di lavori simili, uno dei più rischiosi, dove spesso capita di dar più importanza al dolore e al pianto che all'attendibilità degli accadimenti di cui ci si fa carico. Alla DuVernay questo bisogna dire che non capita, se non forse in una sola occasione, ed è piuttosto sollevante riconoscere come la regista si sia impegnata duramente a mantenere tale equilibrio per l'intera durata a disposizione, cercando di lasciarsi coinvolgere il meno possibile e restare neutrale di fronte qualcosa che sicuramente, ripassando, non l'avrà lasciata né tranquilla e né distaccata.

Nonostante l'operazione possa perciò considerarsi non necessaria o richiesta, nel suo piccolo il lavoro della DuVernay merita di conseguire un apprezzamento, se non altro per essere riuscita a raccontare un pezzo di Storia, evitando ogni genere di trappola o scorciatoia drammatica. Attenzioni basilari che chiunque si avvicini ad operazioni di questo tipo non dovrebbe mai perdere di vista.

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