Rock The Kasbah - La Recensione

Mentre nel mondo i talent show nascono come funghi e la lotta per scovare nuove popstar impazza, in certe culture si fa ancora fatica a sdoganare uguaglianza di ruoli tra uomini e donne.
In Afghanistan, per esempio, fino a qualche anno fa, alle donne, tra le altre cose, era espressamente vietato cantare in pubblico e chiunque si permetteva il lusso di non rispettare la regola, oltre a portare vergogna alla propria famiglia, rischiava delle severe punizioni tra le quali non era da escludere la morte. Nel 2008, però accade un evento straordinario: nella terza edizione di Afghan Star (l'equivalente afghano di American Idol) due donne mettono in mostra il loro talento vocale e la loro bellezza, creando uno scompiglio popolare con cui ancora stanno lottando e cercando di convivere serenamente. Questa storia, nei dettagli, è raccontata nel documentario dal titolo "Afghan Star", diretto dalla regista britannica Havana Marking e preso di ispirazione da "Rock The Kasbah" per tirarne fuori una storia a tinte più leggere e ironiche, che tuttavia non perde di vista neppure la brutalità della guerra.

La questione della parità, quindi, si fa meno rilevante nella pellicola diretta da Barry Levinson: dove la tematica di rompere tutte le barriere per andare incontro alla libertà e ai nostri sogni non è vissuta dal lato della ragazza reclusa, ma da quello di un manager musicale (forse una volta) di successo, in cerca di soldi facili e convinto di poterli trovare con un concerto in Afghanistan da dedicare alle truppe americane. Sarà lui, infatti, tradito dalla sua cantante principale e rimasto senza passaporto, ad imbattersi in Salima, la giovane ragazza dalla splendida voce che sempre lui proverà a convincere per partecipare a tutti i costi al talent show più famoso e seguito di Kabul (si, nell'originale le ragazze erano due, qui una).
Per "Rock The Kasbah", insomma, la storia vera di Setara Hoseinzadah - una delle due concorrenti di quella storica edizione di Afghan Star, ringraziata pubblicamente nei titoli di coda - è solo un pretesto, una spinta per far muovere Bill Murray e dare un po' di colore ad una pellicola girata principalmente tra scenari di guerra e deserti asettici. Un pretesto che Levinson ama unire a un altro pretesto, la guerra: che c'è, si, è brutta, per carità, ma viene fuori solamente quando serve e quando serve a dare una scossa risolutiva alla storia o ai personaggi.

Il nocciolo della questione allora è la risata. O almeno, questo doveva essere.
Perché ogni sforzo eseguito dallo sceneggiatore Mitch Glazer e da Levinson per dare alla loro opera quel tono dissacrante, quel clima demenziale, da appoggiare tutti e due su di un Murray non particolarmente in palla svanisce nel nulla non appena viene messa da parte quella scena d'apertura, che un minimo poteva far sperare. Dal viaggio in Afghanistan alla battaglia per concedere a Salima il diritto di cantare, "Rock The Kasbah" non fa altro che girare completamente a vuoto, presentare personaggi deboli e bidimensionali e sforzarsi di appassionare senza avere dalla sua quella spina dorsale eretta, con cui almeno ostentare equilibrio. Rinegoziare un evento importante come quello della Hoseinzadah è un idea astuta, asciugarla parzialmente dalla durezza forse di più, ma farlo senza una coordinazione, un tracciato, rende il tentativo di un operazione spassosa e coinvolgente interamente non riuscito.

Finisce con l'essere addirittura insulso, dunque, "Rock The Kasbah", un lavoro che da la sensazione di improvvisato, di frettoloso, di disordinato. E a percepirlo non è solo lo spettatore, ma anche un regista che, nel finale, non vede l'ora di sforbiciare e porre il punto definitivo, su qualcosa che, probabilmente, cominciava a non sostenere più lui per primo.

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