Tre storie, tre famiglie, ognuna simile, eppure assai diversa e assai lontana - anche geograficamente - dall'altra. Sono tre mediometraggi antologici, infatti, quelli portati in scena da Jim Jarmusch in "Father Mother Sister Brother", tenuti insieme da un filo rosso sottilissimo – e da luoghi (non) comuni – che li accorpa, perché vede genitori e figli riunirsi - in un caso, l'ultimo, solo spiritualmente - dopo anni, o lunghi mesi di separazione e rapporti a distanza.
Va controcorrente, Jarmusch - e contro il cinema e le tendenze moderne - perché realizza un film che vive ed esiste attraverso i silenzi, i non detti, attraverso sguardi che tradiscono parole, le quali, pure, non è che siano poi così tante come ci si aspetti. Al contrario di quel che si potrebbe pensare, infatti, non c'è grande verbosità in "Father Mother Sister Brother", anzi, c'è l'imbarazzo enorme di chi non sa che dire, di chi magari in quel contesto specifico ci sta per educazione, affetto, coprendo tali disagi, spesso, con frasi di circostanza, commenti superflui, che non viaggiano mai spediti, o a ruota libera perché improvvisati, sghembi. Ed è in questi spazi che, però, entriamo dentro anche noi, che viene a crearsi empatia tra gli attori sullo schermo e il pubblico in poltrona, perché se è vero che tutto il mondo è paese - e qui passiamo dal New Jersey, a Dublino per poi chiudere a Parigi - è altrettanto vero che quell' impasse che si può provare da adulti, davanti a un genitore che ormai non è più tanto presente nella nostra vita (e viceversa, ovviamente), è la stessa che Jarmusch riesce a catturare e a trasmettere. Del resto, non è falso ammettere che, per quanto ci si sforzi di dissimulare, di fronte a un padre, o a una madre, si resta sempre figli e figlie e, quindi, sempre sotto la lente d'ingrandimento, sotto esame. Sarà per via di quella volontà di dimostrare a sé stessi che si è diventati davvero adulti, o per quella voglia di far sentire loro, in qualche modo, orgogliosi di noi, della nostra crescita personale e dei nostri traguardi (o sarà entrambe le cose, magari).
Più che essere seguito, è un lavoro che va sentito e assorbito, allora, quello di Jarmusch e che, proprio per questo, rischia di essere frainteso, sottostimato, incompreso. Va detto che, pur risultando assolutamente coerente con la sua filmografia e col suo stile riconoscibilissimo, non è che vada ad aggiungere un granché di rilevante (e non vuole farlo, probabilmente), accontentandosi di sperimentare una forma di quiete sopra la tempesta che fa sicuramente rima con incomunicabilità e con parentela. Evita in ogni maniera di fare la voce grossa, accarezzando e cullando la tematica di cui si fa carico, ma allontanando ogni pretesto e interesse che possa esortare ad affrontarla di petto, esplorarla, concederle una (ri)soluzione. Giusto nell’ultimo episodio, quello con i due gemelli protagonisti, c’è un leggero tentativo di scavare più a fondo, di condividere sentimenti reali, emozioni, anche per via di una connessione emotiva che sembra viaggiare ed imporsi a prescindere dalle loro volontà. Cosa che non succede laddove la genetica non può scardinare ed intervenire, lasciando integri segreti, interrogativi e giudizi che, inevitabilmente, finiscono per scatenare situazioni assurde, scomode e che, più o meno tutti, conosciamo piuttosto bene: e che, forse, ci collegano idealmente ad ognuna delle famiglie descritte.
Scorre via come fa un pomeriggio in visita dai parenti, insomma, "Father Mother Sister Brother", lasciando il medesimo retrogusto di un gesto che era doveroso fare - in questo caso, vedere l'ultimo film di Jarmusch - ma pure quella sensazione che quel paio d’ore passate lì, potevano andare meglio, offrire qualche aneddoto, o scintilla (specialmente con un cast del genere, peraltro in forma smagliante).
E in tal senso, non deve aver aiutato quel Leone d'Oro vinto un po' per caso e un po' per limitare i litigi - almeno questo è stato spifferato - di una giuria in crisi, la quale, per salvare sé stessa, potrebbe aver involontariamente alzato le aspettative di un film il cui spirito e le cui funzioni avrebbero preferito continuare a viaggiare sottotraccia e con un basso profilo.
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