E’ un Jason Bourne taciturno all'estremo quello che vediamo rispuntare dopo la pausa durata nove anni. Un Bourne che, in realtà, la pace non l’ha trovata affatto, anzi, è più tormentato di prima e cerca di sfogarsi partecipando ad incontri clandestini dove mette ko i suoi avversari non appena decide di colpirli. Secondo l’agente della CIA in cerca di attenzioni, interpretata dalla new entry Alicia Vikander, si tratta di una crisi interiore alla quale il suo profilo era incline, legata ancora a quell'identità cancellata e poi ripristinata, che ha generato una sorta di falla nel suo sistema cerebrale con la quale sarebbe addirittura possibile, ora, riuscire a convincerlo a rientrare come agente segreto. Lui però con la CIA sembra nuovamente avere dei conti in sospeso, credeva di sapere e di ricordare tutto, ma a quanto pare esiste un passato più remoto del precedente in cui a gravitare c’è suo padre e una morte dalle origini poco chiare.
Nell'era in cui i sequel, i remake e i reboot hanno un ruolo fondamentale per il cinema, pensare che il franchise di "Jason Bourne" potesse farsi da parte, accettando la conclusione di un percorso esaustivo e grandioso e il consecutivo fallimento del tentato spin-off con Jeremy Renner (che proprio dispiaciuto a noi non era), era davvero un’utopia sulla quale puntare sarebbe stato azzardato. Più probabile, infatti, che Paul Greengrass e Matt Damon tornassero sui loro passi, convinti un po’ a forza e un po’a cuore a riprendere le redini e a ricominciare, rispondendo a un sistema che se non puoi battere, come si dice, tanto vale alleartici. I motivi che riportano Bourne in carreggiata, operativo e visibile ai radar di chi lo aveva addestrato, allora, sono quanto mai scricchiolanti e sommessi, reggono per il rotto della cuffia e, volenti o nolenti, penalizzano la robustezza di una storia e di un marchio che solitamente di questo tipo di problemi non aveva mai sofferto, tutt'altro. Eppure sia Greengrass che Damon ne sono consapevoli, non lo dicono, magari, però che la loro sia una reunion dedicata fondamentalmente ai fan, agli affezionati e a quelli che di fronte alle azioni del loro idolo perdono totalmente i freni, esaltandosi ad ogni inquadratura e ad ogni gancio assestato, in realtà, lo pensano; così come pensano che proprio per questo motivo riportare a galla l’adrenalina e i muscoli della vecchia trilogia in questo quinto capitolo sia uno sforzo che non solo sarebbe impossibile per motivazioni, ma neppure richiesto e necessario.
Per cui li vedi, i due, ognuno impegnato a fare quel che gli riesce meglio: il regista a riprendere camera a mano, con ritmo concitato e piani tendenzialmente stretti o strettissimi e l’attore a fuggire con stile e a picchiare duro, non disdegnando gli inseguimenti per la strada con macchine o con moto (espediente notevole per andare ad aumentare il passo di una pellicola sfiancata e in divenire). Sullo sfondo una CIA capitanata da un Tommy Lee Jones cinico e doppiogiochista (un po' come gli altri, alla fine), che sta progettando un metodo per abbattere totalmente la privacy mondiale, ma nel frattempo deve vedersela col nuovo che avanza prepotentemente e a braccetto con la tecnologia che, se da una parte, lui, più maturo, vorrebbe portare al suo fianco, dall'altra cerca anche di abbattere, salvaguardandosi la poltrona: rispondendo con l’arma dell'astuzia e dell’esperienza, ma soprattutto con un Vincent Cassel determinato a premere il grilletto con la stessa facilità con cui accetta ruoli da antagonista.
Un duello tra passato e futuro, insomma, sul quale, tuttavia, il film preferisce appoggiarsi, piuttosto che mettersi a calcare la mano, stesso atteggiamento che utilizza, del resto, quando fa riferimento al caso Snowden e agli strascichi provocati (che per il contesto generale sono più una gustosa citazione che un assist da prendere al volo e infilare in rete).
Che tanto i giochi, si sa, erano belli che finiti nove anni fa e per quanto si finga che ci sia ancora da scavare, la verità è che l’unica cosa che si può trovare, raschiando il fondo, è un inseguimento adrenalinico sopra le righe che entusiasma, si, ma non giustifica la missione.
Trailer:
Nell'era in cui i sequel, i remake e i reboot hanno un ruolo fondamentale per il cinema, pensare che il franchise di "Jason Bourne" potesse farsi da parte, accettando la conclusione di un percorso esaustivo e grandioso e il consecutivo fallimento del tentato spin-off con Jeremy Renner (che proprio dispiaciuto a noi non era), era davvero un’utopia sulla quale puntare sarebbe stato azzardato. Più probabile, infatti, che Paul Greengrass e Matt Damon tornassero sui loro passi, convinti un po’ a forza e un po’a cuore a riprendere le redini e a ricominciare, rispondendo a un sistema che se non puoi battere, come si dice, tanto vale alleartici. I motivi che riportano Bourne in carreggiata, operativo e visibile ai radar di chi lo aveva addestrato, allora, sono quanto mai scricchiolanti e sommessi, reggono per il rotto della cuffia e, volenti o nolenti, penalizzano la robustezza di una storia e di un marchio che solitamente di questo tipo di problemi non aveva mai sofferto, tutt'altro. Eppure sia Greengrass che Damon ne sono consapevoli, non lo dicono, magari, però che la loro sia una reunion dedicata fondamentalmente ai fan, agli affezionati e a quelli che di fronte alle azioni del loro idolo perdono totalmente i freni, esaltandosi ad ogni inquadratura e ad ogni gancio assestato, in realtà, lo pensano; così come pensano che proprio per questo motivo riportare a galla l’adrenalina e i muscoli della vecchia trilogia in questo quinto capitolo sia uno sforzo che non solo sarebbe impossibile per motivazioni, ma neppure richiesto e necessario.
Per cui li vedi, i due, ognuno impegnato a fare quel che gli riesce meglio: il regista a riprendere camera a mano, con ritmo concitato e piani tendenzialmente stretti o strettissimi e l’attore a fuggire con stile e a picchiare duro, non disdegnando gli inseguimenti per la strada con macchine o con moto (espediente notevole per andare ad aumentare il passo di una pellicola sfiancata e in divenire). Sullo sfondo una CIA capitanata da un Tommy Lee Jones cinico e doppiogiochista (un po' come gli altri, alla fine), che sta progettando un metodo per abbattere totalmente la privacy mondiale, ma nel frattempo deve vedersela col nuovo che avanza prepotentemente e a braccetto con la tecnologia che, se da una parte, lui, più maturo, vorrebbe portare al suo fianco, dall'altra cerca anche di abbattere, salvaguardandosi la poltrona: rispondendo con l’arma dell'astuzia e dell’esperienza, ma soprattutto con un Vincent Cassel determinato a premere il grilletto con la stessa facilità con cui accetta ruoli da antagonista.
Un duello tra passato e futuro, insomma, sul quale, tuttavia, il film preferisce appoggiarsi, piuttosto che mettersi a calcare la mano, stesso atteggiamento che utilizza, del resto, quando fa riferimento al caso Snowden e agli strascichi provocati (che per il contesto generale sono più una gustosa citazione che un assist da prendere al volo e infilare in rete).
Che tanto i giochi, si sa, erano belli che finiti nove anni fa e per quanto si finga che ci sia ancora da scavare, la verità è che l’unica cosa che si può trovare, raschiando il fondo, è un inseguimento adrenalinico sopra le righe che entusiasma, si, ma non giustifica la missione.
Trailer:
Commenti
Posta un commento