Ricordo che la prima volta che vidi il trailer di “Man In The Dark” associai subito il personaggio interpretato da Stephen Lang - affetto da cecità, ma perfettamente in grado di difendersi e di picchiare - al “Daredevil” della Marvel: un Daredevil in pensione, scrissi, ormai invecchiato e arrivato al tramonto. Lo feci per scherzare, per approfittare di uno spunto che mi appariva illogico in un universo uguale o simile a quello reale, per niente conscio, sicuramente, che quella mia estremizzazione potesse essere, invece, più vicina del previsto alla verità effettiva.
Già, perché di quel personaggio cieco, vittima – se così si può dire – di tre furfantelli alla ricerca di denaro facile, entrati in casa sua per via di una soffiata relativa a un risarcimento danni corposissimo, sappiamo, oltre del suo handicap, solo la maniera in cui se l’è procurato – in guerra – e come – attraverso le schegge di una granata. Sulle sue abilità a muoversi nel buio, a percepire movimenti e posizioni misurando i respiri (il titolo originale era “Don’t Breathe”, ovvero “Non Respirare”) e a sparare quasi chirurgicamente senza vedere l’obiettivo, il regista Fede Alvarez infatti preferisce sorvolare, dare per scontato che lo spettatore accetti indirettamente il discorso dei quattro sensi più sviluppati, condensando al massimo il suo impegno verso l’elemento indispensabile al suo cinema: la suspense. Vedere i tre ragazzi, convinti di rubare caramelle ad un bambino, diventare prede in trappola di un cacciatore che non intende fargliela passar liscia, è come immergersi allora in una vasca colma di tensione e di panico, scoprendo troppo tardi di non poter più risalire con la stessa semplicità con cui si era deciso di andare giù in avanscoperta. In questo senso è molto simile a una scatola cinese “Man In The Dark”: finge di dare punti di riferimento per depistare e poi lascia di sasso fornendo nuove informazioni, totalmente inaspettate.
Colpisce alle spalle, sconcerta, provoca in chi sta guardando un senso di precarietà disturbante, prepotentemente angosciosa, la pellicola di Alvarez. Utilizza tutta farina del suo sacco, stavolta, il regista, non appoggiandosi a scheletri pre-esistenti e procedendo dritto verso quella che, abbiamo capito, è la sua ferma idea di spettacolo. Entrati nel vivo dell’esperienza, perciò, degli elementi rimasti in sospeso, di quel cieco di cui avremmo voluto avere maggiori informazioni e dei peli nell'uovo a cui, magari, inizialmente facevamo caso non ci interessa più nulla, tutto crolla in favore del fiato corto, dell’adrenalina, dei twist sorprendenti che “Man In The Dark” lancia a ripetizione, adempiendo minuziosamente a quel che era il suo compito e intrattenendo a livelli altissimi.
Lo stile del regista uruguaiano è ruvido, diretto, refrattario agli orpelli e all'ironia in generale, o della sorte, sempre avvinghiato a un desiderio di riscatto che spesso fa rima con perdita e con dolore. Nulla a che vedere, insomma, con quello del suo amico e garante Sam Raimi, il quale torna, qui, in veste di produttore - dopo aver affiancato Alvarez già nel remake de “La Casa” – quasi come a voler rinforzare il suo endorsement nei confronti di quello che potremmo considerare, ormai, un suo pupillo, in cui vede - non a torto - delle grandissime potenzialità di crescita.
Del resto, che sia horror (come nel caso precedente) o che sia thriller (come in questo), Alvarez il suo ha dimostrato di saperlo fare e di saperlo fare con competenza, proponendosi al pubblico come un regista giovane, non innovativo, forse, ma assolutamente capace di creare quel divertimento tutto palpiti e batticuore che in molti cercano e che di questi tempi scarseggiano a scovare.
Trailer:
Già, perché di quel personaggio cieco, vittima – se così si può dire – di tre furfantelli alla ricerca di denaro facile, entrati in casa sua per via di una soffiata relativa a un risarcimento danni corposissimo, sappiamo, oltre del suo handicap, solo la maniera in cui se l’è procurato – in guerra – e come – attraverso le schegge di una granata. Sulle sue abilità a muoversi nel buio, a percepire movimenti e posizioni misurando i respiri (il titolo originale era “Don’t Breathe”, ovvero “Non Respirare”) e a sparare quasi chirurgicamente senza vedere l’obiettivo, il regista Fede Alvarez infatti preferisce sorvolare, dare per scontato che lo spettatore accetti indirettamente il discorso dei quattro sensi più sviluppati, condensando al massimo il suo impegno verso l’elemento indispensabile al suo cinema: la suspense. Vedere i tre ragazzi, convinti di rubare caramelle ad un bambino, diventare prede in trappola di un cacciatore che non intende fargliela passar liscia, è come immergersi allora in una vasca colma di tensione e di panico, scoprendo troppo tardi di non poter più risalire con la stessa semplicità con cui si era deciso di andare giù in avanscoperta. In questo senso è molto simile a una scatola cinese “Man In The Dark”: finge di dare punti di riferimento per depistare e poi lascia di sasso fornendo nuove informazioni, totalmente inaspettate.
Colpisce alle spalle, sconcerta, provoca in chi sta guardando un senso di precarietà disturbante, prepotentemente angosciosa, la pellicola di Alvarez. Utilizza tutta farina del suo sacco, stavolta, il regista, non appoggiandosi a scheletri pre-esistenti e procedendo dritto verso quella che, abbiamo capito, è la sua ferma idea di spettacolo. Entrati nel vivo dell’esperienza, perciò, degli elementi rimasti in sospeso, di quel cieco di cui avremmo voluto avere maggiori informazioni e dei peli nell'uovo a cui, magari, inizialmente facevamo caso non ci interessa più nulla, tutto crolla in favore del fiato corto, dell’adrenalina, dei twist sorprendenti che “Man In The Dark” lancia a ripetizione, adempiendo minuziosamente a quel che era il suo compito e intrattenendo a livelli altissimi.
Lo stile del regista uruguaiano è ruvido, diretto, refrattario agli orpelli e all'ironia in generale, o della sorte, sempre avvinghiato a un desiderio di riscatto che spesso fa rima con perdita e con dolore. Nulla a che vedere, insomma, con quello del suo amico e garante Sam Raimi, il quale torna, qui, in veste di produttore - dopo aver affiancato Alvarez già nel remake de “La Casa” – quasi come a voler rinforzare il suo endorsement nei confronti di quello che potremmo considerare, ormai, un suo pupillo, in cui vede - non a torto - delle grandissime potenzialità di crescita.
Del resto, che sia horror (come nel caso precedente) o che sia thriller (come in questo), Alvarez il suo ha dimostrato di saperlo fare e di saperlo fare con competenza, proponendosi al pubblico come un regista giovane, non innovativo, forse, ma assolutamente capace di creare quel divertimento tutto palpiti e batticuore che in molti cercano e che di questi tempi scarseggiano a scovare.
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