Un koala imprenditore, con la passione per lo spettacolo e proprietario di un teatro storico, vuole giocarsi l’intera carriera e riscattare le sue recenti parabole discendenti con un contest aperto a tutti gli animali, aspiranti cantanti. Premio in palio mille dollari, che per un errore commesso dalla sua segretaria rana con occhio finto, nel volantino stampato e distribuito per le vie della città, diventano diecimila: somma alquanto strana considerati gli enormi debiti con la banca e coi dipendenti che fa fatica ad arginare.
Trae spunto da quei titoli di ballo e canto che da noi escono principalmente in estate, “Sing”, un film d’animazione dove, appunto, viene data la possibilità ad aspiranti talenti di mettersi in mostra e di riscattare definitivamente una posizione che non gli appartiene o un anonimato non meritato. Sulla falsa riga di “Step Up”, “Save The Last Dance” e, a cascata, un po’ tutti i derivati che li hanno seguiti o anticipati, anche qui infatti i protagonisti vivono un dramma personale o esistenziale dal quale non riescono a venir fuori, e l’opportunità di un concorso, a prescindere dal farlocco premio in denaro, figura per loro come una manna venuta dal cielo per liberarsi dalla tristezza e dall'insoddisfazione che li affligge. Niente male come idea, se non fosse per le modalità, un po’ superficiali, con cui il regista e sceneggiatore Garth Jennings decida di svilupparla. Opta per un approccio di tipo colorato, pop, di base allegro e divertente, ma ripetitivo abbastanza da somigliare a un ritornello accettabile nell'immediato e stancante alla lunga. Potremmo paragonarla a una sorta di pigrizia narrativa, la sua, che alle potenzialità delle storyline dei protagonisti, abbozzate in parallelo, preferisce inserire sketch a ripetizione non sempre efficaci che, anziché affinare, disturbano l’armonia della coralità, tenendo incollato a terra lo spirito di una pellicola che, senza dubbio, aveva tutte le carte in regola per elevarsi e salire di qualche metro.
Adolescenti spinti al crimine dai propri genitori, mamme con sogni nel cassetto rilegate al ruolo di casalinga, artisti di strada laureati eppur costretti a chiedere l’elemosina, talenti purissimi nascosti nell'ombra per l’imbarazzo e rocker da sballo oscurate da partner maschili colmi di ego. Non gli mancavano di certo gli elementi, a “Sing”, per scendere più in profondità e raccontare a suo modo una verità non così divergente da quella reale e amara che appartiene anche al nostro mondo. A mancargli, probabilmente, è stato più qualcos'altro, magari la fiducia di Jennings nell'osare e nel buttarsi a capofitto in un progetto che avrebbe potuto mostrare senza riserve a che tipo di stoffa egli appartenesse: frenato, forse, dal timore di somigliare ad uno dei suoi personaggi, con l’aggravante dell’esito negativo legato a un risvolto non vincente. Ha preferito giocare per un pareggio, quindi, il regista, per quella via che porta ad un risultato modesto, senza lode e senza infamia, che accontenta soprattutto il pubblico appassionato di reality show derivati e quello più piccolo che raramente riuscirà a trattenere le risate di fronte a sfilate di animali così sopra le righe e travolgenti nel conquistarsi il palco.
Per noi, appartenenti alle file dei più rompiscatole o degli esigenti, resta comunque il ricordo delle performance canore di un cast che, se fossimo davvero in uno di quei contest in cui c’è da giudicare e selezionare, promuoveremmo in toto e porteremmo dritto, dritto in finale. Perché Taron Egerton, Reese Witherspoon, Scarlett Johansson, Tori Kelly, ma in particolare Seth MacFarlane, con le loro voci sono gli unici capaci di ripristinare ordine e attenzione al centro del caos e della sufficienza generale.
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