Jackie - La Recensione

Jackie Natalie Portman
Sarà stata la responsabilità del suo primo progetto americano, sarà stato il dovere di raccontare un personaggio non propriamente vicino alla sua cultura, o forse l’ennesima intuizione ineccepibile con cui ogni volta riesce a stupire e a spiazzare ogni previsione, sta di fatto che Pablo Larrain con “Jackie” realizza un altro biopic alternativo, più radicato a terra rispetto alle licenze poetiche prese con “Neruda”, ma comunque personale e distaccato da qualsiasi altro modello convenzionale ipotizzabile.

Il suo approccio verso il personaggio di Jacqueline Kennedy infatti è uno di quelli che si direbbero in punta di piedi, singolare, intrigante, tratteggiato non a caso forse con l’ausilio di un giornalista che, a pochi giorni dalla morte del marito, le si presenta in casa intervistandola, speranzoso di raccoglierne un suo profilo meno oscuro, più a fuoco e definitivo. Si concentra sui quattro giorni successivi alla morte di John Fitzgerald Kennedy, Larrain, si concentra quindi sul lutto, sul dolore di una moglie che ha visto il marito morirgli tra le gambe, di una madre che non sa come dire ai propri figli che il loro padre non tornerà e di una First Lady disposta a dar filo da torcere ad ogni membro della Casa Bianca pur di commemorare il Presidente appena scomparso secondo una marcia funebre degna della sua grandezza. Questo perché era una donna dai mille volti Jackie: sapeva essere dolce ed impacciata davanti alle telecamere - durante la storica visita guidata alla Casa Bianca, trasmessa in televisione - sapeva essere tosta e decisa se c’era da prendere una decisione importante legata alle sorti (politiche) del marito – cosa che valeva in campagna elettorale come post-mortem – ma sapeva anche scegliere quando era il momento di dar sfogo a quel ritaglio privato e interiore, in cui tutta la sua fragilità usciva fuori, manifestando dubbi, paure e sensi di colpa.

Jackie Natalie PortmanCerca di essere il più fedele possibile, il regista, di replicare il ricordo, le contraddizioni, il modo di essere di una donna che con la sua sincerità, il suo coraggio e l’umanità che la contraddistingueva ha saputo farsi largo spontaneamente nel cuore di tutto il popolo americano, riuscendo ad essere contemporaneamente pubblica e riservata, così come aperta e imperscrutabile. Una meticolosità e una giusta distanza che “Jackie” assorbe interamente anche nello stile, quel 4:3 d’epoca, molto televisivo, già utilizzato da Larrain qualche anno fa per motivi affini nel suo “No: I Giorni Dell’Arcobaleno”, e con il quale va ad irrobustire qui la rigorosità del racconto, agevolando il coinvolgimento nei confronti dello spettatore. Un coinvolgimento al quale difficilmente si resta indifferenti, grazie anche alla performance di una Natalie Portman davvero ineccepibile, capace di incarnare, non solo esteticamente, un corpo e una personalità tanto complessa quanto maestosa, mantenendo costante un’aderenza spaventosa, a tratti disarmante.

Quel senso d’incompiutezza perciò che si percepisce al termine della proiezione del film, e che sulle prime viene da attribuire ad un lavoro meno disinvolto e brillante del regista cileno, lentamente, e metabolizzando, intuisci appartenere in tutto e per tutto al personaggio posto al centro e al suo modo di essere: a quella maestria innata che faceva oscillare Jackie a metà tra quel libro che ognuno credeva di conoscere e il diario segreto a cui nessuno (o quasi) aveva accesso.

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