La sensazione è quella che non ti aspetti: l’indifferenza.
Già, si rimane indifferenti di fronte a “T2: Trainspotting”, il film che ricongiunge Mark, Francis, Spud e Sick Boy vent’anni dopo la rottura che aveva visto il primo fuggire con l’intero bottino da 16.000 sterline, guadagnato grazie ai due chili di eroina comprata dall’intero gruppo sottobanco, e rivenduta a Londra ad un trafficante. Un colpo sul quale - e forse è l’unica informazione davvero utile di questo sequel - contavano tutti per dare una svolta decisiva alle loro vite, o almeno questo è ciò che due componenti su tre, rinfacciano al figliol prodigo, Ewan McGregor, forse mentendo neanche troppo bene a loro stessi.
Perché nonostante l’acqua sotto i ponti, o se preferite l’eroina nelle vene, li ritroviamo praticamente come li avremmo immaginati quei ragazzacci di Edimburgo diventati adesso uomini “maturi”, ovvero ancora incapaci di rimboccarsi le maniche e di integrarsi come si deve nella società (moderna) che li circonda. L’unico dubbio lecito poteva ruotare intorno al personaggio di McGregor, alla felicità che probabilmente il suo Mark poteva aver agguantato scollandosi da un contesto che di speranze onestamente ne lasciava ben poche: ma pure lì, coerentemente, il regista Danny Boyle e il suo fido sceneggiatore John Hodge scelgono di non esagerare, ufficializzando un disagio e un’appartenenza al medesimo ceppo virale degli altri che, seppur con effetto ritardato, non ha mancato di sbriciolare e di sfaldare le prospettive di una rinascita serena e salutare, con scadenza a lungo termine. Così, senza aver mosso un dito per fare in modo che ciò accadesse, ma senza averlo mosso neppure per evitarlo, la banda finisce per ritrovarsi al punto di partenza, logicamente più arrabbiata (ma con sé stessa), stanca, slegata, colma di malinconia e di rimpianti e soprattutto preoccupata dall’età che avanza e da quello spettro di essere ormai fottuta: che se per alcuni è già assodato, per altri è da accertare o comunque un dettaglio di scarso rilievo.
C’è infatti un senso di resa che fa quasi tenerezza a cospargere l’animo di “T2: Trainspotting”, quella consapevolezza che solo raramente porta a tentare il suicidio, che non spezza la volontà di continuare a correre, di dimenarsi, ma che tuttavia non viene mai scacciata via dagli sguardi, i discorsi e i pensieri dei suoi protagonisti. Loro sanno meglio di noi, del resto, il destino che gli spetta, malgrado le apparenze l’intelligenza non gli manca per arrivare alla conclusione che se non ci son riusciti in vent’anni a raddrizzare lo storto che si portavano appresso, allora forse significa che non ci riusciranno mai, che questo è il massimo a cui potranno ambire. Perciò a questo punto non gli rimane che stare al gioco, accettare il ruolo che gli è stato assegnato e procedere ad abbandonarsi ad esso, ricalcando le tracce di un passato che non torna, ma che può essere calpestato ancora e, magari, trovare il tempo per guardarsi dentro, tirare le somme e provare a scusarsi con chi, senza meritarselo, ha dovuto soffrire gli effetti collaterali di una ribellione sostanzialmente falsa e stupida.
Che a quanto pare questo è l'unico modo per non rischiare di peggiorare le cose, senza dubbio l'unico per contenerle, salvando il più possibile di ciò che il marcio non ha infettato e lasciando, infine, che proprio quel marcio decida da solo di che morte voglia morire. Quello "scegliete la vita", in fondo, è stato sempre uno sponsor ad uso e consumo degli altri, un consiglio concesso a noi, in cui Mark, Francis, Spud e Sick Boy non si sono mai rispecchiati e mai riusciranno a farlo.
Ma noi questo già lo sapevamo, non c'era bisogno di metterlo nero su bianco, o perlomeno non c'era bisogno di farlo in un sequel che oltre a non essere l'adattamento fedele di Porno, romanzo successore legittimo degli eventi che furono, non contribuisce affatto ad accrescere o a ricaricare l'entusiasmo generato dal film del 1996.
Trailer:
Già, si rimane indifferenti di fronte a “T2: Trainspotting”, il film che ricongiunge Mark, Francis, Spud e Sick Boy vent’anni dopo la rottura che aveva visto il primo fuggire con l’intero bottino da 16.000 sterline, guadagnato grazie ai due chili di eroina comprata dall’intero gruppo sottobanco, e rivenduta a Londra ad un trafficante. Un colpo sul quale - e forse è l’unica informazione davvero utile di questo sequel - contavano tutti per dare una svolta decisiva alle loro vite, o almeno questo è ciò che due componenti su tre, rinfacciano al figliol prodigo, Ewan McGregor, forse mentendo neanche troppo bene a loro stessi.
Perché nonostante l’acqua sotto i ponti, o se preferite l’eroina nelle vene, li ritroviamo praticamente come li avremmo immaginati quei ragazzacci di Edimburgo diventati adesso uomini “maturi”, ovvero ancora incapaci di rimboccarsi le maniche e di integrarsi come si deve nella società (moderna) che li circonda. L’unico dubbio lecito poteva ruotare intorno al personaggio di McGregor, alla felicità che probabilmente il suo Mark poteva aver agguantato scollandosi da un contesto che di speranze onestamente ne lasciava ben poche: ma pure lì, coerentemente, il regista Danny Boyle e il suo fido sceneggiatore John Hodge scelgono di non esagerare, ufficializzando un disagio e un’appartenenza al medesimo ceppo virale degli altri che, seppur con effetto ritardato, non ha mancato di sbriciolare e di sfaldare le prospettive di una rinascita serena e salutare, con scadenza a lungo termine. Così, senza aver mosso un dito per fare in modo che ciò accadesse, ma senza averlo mosso neppure per evitarlo, la banda finisce per ritrovarsi al punto di partenza, logicamente più arrabbiata (ma con sé stessa), stanca, slegata, colma di malinconia e di rimpianti e soprattutto preoccupata dall’età che avanza e da quello spettro di essere ormai fottuta: che se per alcuni è già assodato, per altri è da accertare o comunque un dettaglio di scarso rilievo.
C’è infatti un senso di resa che fa quasi tenerezza a cospargere l’animo di “T2: Trainspotting”, quella consapevolezza che solo raramente porta a tentare il suicidio, che non spezza la volontà di continuare a correre, di dimenarsi, ma che tuttavia non viene mai scacciata via dagli sguardi, i discorsi e i pensieri dei suoi protagonisti. Loro sanno meglio di noi, del resto, il destino che gli spetta, malgrado le apparenze l’intelligenza non gli manca per arrivare alla conclusione che se non ci son riusciti in vent’anni a raddrizzare lo storto che si portavano appresso, allora forse significa che non ci riusciranno mai, che questo è il massimo a cui potranno ambire. Perciò a questo punto non gli rimane che stare al gioco, accettare il ruolo che gli è stato assegnato e procedere ad abbandonarsi ad esso, ricalcando le tracce di un passato che non torna, ma che può essere calpestato ancora e, magari, trovare il tempo per guardarsi dentro, tirare le somme e provare a scusarsi con chi, senza meritarselo, ha dovuto soffrire gli effetti collaterali di una ribellione sostanzialmente falsa e stupida.
Che a quanto pare questo è l'unico modo per non rischiare di peggiorare le cose, senza dubbio l'unico per contenerle, salvando il più possibile di ciò che il marcio non ha infettato e lasciando, infine, che proprio quel marcio decida da solo di che morte voglia morire. Quello "scegliete la vita", in fondo, è stato sempre uno sponsor ad uso e consumo degli altri, un consiglio concesso a noi, in cui Mark, Francis, Spud e Sick Boy non si sono mai rispecchiati e mai riusciranno a farlo.
Ma noi questo già lo sapevamo, non c'era bisogno di metterlo nero su bianco, o perlomeno non c'era bisogno di farlo in un sequel che oltre a non essere l'adattamento fedele di Porno, romanzo successore legittimo degli eventi che furono, non contribuisce affatto ad accrescere o a ricaricare l'entusiasmo generato dal film del 1996.
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