Dovessimo prenderla e riassumerla su due piedi, la storia di “Song To Song” avrebbe tutto un altro effetto. Risulterebbe intrigante, coinvolgente, emozionante. Aggettivi che nell'arrangiamento di Terrence Malick se non spariscono completamente, bè allora poco ci manca, tutti schiacciati dal solito flusso di coscienza al quale il regista, ormai, pare non riuscire proprio a rinunciare e che, questa volta, anziché fungere da valore aggiunto, finisce con l’essere un ingombrante peso morto.
Da un amore come quello sbocciato tra il dolce (angelico?) musicista BV di Ryan Gosling e la Faye dalle pulsioni autodistruttrici di Rooney Mara si poteva trarre sicuramente qualcosa di maggiormente emotivo, andare a giocare di più con le interferenze tentatrici del produttore musicale satanico Michael Fassbender - il quale ama nutrirsi di anime perse e ferite - e gestire meglio l’avvelenamento metaforico di una Natalie Portman meravigliosa (erano anni che non la si vedeva così bella al cinema), a cui però non si riesce a fornire onorato spessore e compimento. E dire che sarebbe bastato limitarsi a narrare, mettere un attimino da parte le vocazioni filosofiche e religiose, le voci fuori campo e concentrarsi a pieno sulla vastità di sfumature e personaggi che “Song To Song” aveva da mettere generosamente a disposizione. Perché rispetto a “To The Wonder” o a “Knights Of Cups”, dove questo tipo di esposizione pagava o aveva perlomeno movente, qui con gli istinti, i nodi e le cicatrici che ci sono in palio e che (s)muovono i protagonisti, appare decisamente forzata e più incline a voler seguire una linea, una tendenza di racconto dalla quale Malick, ultimamente, pare abbia deciso di non volersi staccare a prescindere. Un vero peccato, se consideriamo gli impedimenti che ciò significa, i canali alternativi non percorsi sui quali si sarebbe potuto sostare o vagare, evitando di ritornare a riprendere confidenza (anche se poi a lui non dispiace) con argomenti già maneggiati e sviscerati in passato, risultando spesso - non sempre, ma spesso - ridondante o comunque aggrappato e rinchiuso in un cinema talmente personale da sembrare, alla lunga, rivolto più a sé stesso che ad un – per quanto ristretto – pubblico di spettatori (questo sebbene uno spiraglio più aperto stavolta bisogna ammettere che ci sia).
Più interessante, a questo punto, diventa il discorso riguardante la contestualizzazione della pellicola: ovvero il mondo della musica e, di riflesso, la ricerca della fama, del successo, a cui per forza di cose vanno ad accodarsi paure, riflessioni e rappresentazioni di lati oscuri più o meno noti, in cui Malick, forse, riesce ad arrivare leggermente meno ripetitivo e ad ampliare lo sguardo. Non si concede moltissimo a pezzi musicali, testi o chissà cosa, ma ne approfitta per ragionare sul concetto di felicità e sugli strumenti utili a raggiungerla: secondo lui, inversamente proporzionali al materialismo e all'affermazione, il più delle volte idealizzati da noi uomini come Paradiso definitivo. Valutazione che porta avanti e santifica mediante il romance in sottofondo potente e vivace a prescindere dal suo ovattamento, a prescindere dalle digressioni che di tanto in tanto lo perdono di vista per poi recuperarlo e riperderlo ancora e dall'altalena temporale ellittica che solo il regista riesce, ogni volta, ad aprire e chiudere come se niente fosse. Un romance che, si capisce senza eccessivi sforzi, è il cuore autentico e primario di questo "Song To Song", la meta da raggiungere, da salvaguardare e proteggere (chi è in grado di farlo, almeno) al costo di riscrivere completamente nostre ambizioni e abitudini.
Perché per Malick felicità è sinonimo di essenziale, di minimale, nulla a che vedere dunque con scalate, traguardi o celebrazioni. Un oggetto misterioso, vacuo e, forse, irraggiungibile a cui possiamo avvicinarci, tuttavia, tramite l'ascolto di noi stessi, del nostro istinto e di quell'amore senza il quale non ci resterebbe che disperazione.
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Perché per Malick felicità è sinonimo di essenziale, di minimale, nulla a che vedere dunque con scalate, traguardi o celebrazioni. Un oggetto misterioso, vacuo e, forse, irraggiungibile a cui possiamo avvicinarci, tuttavia, tramite l'ascolto di noi stessi, del nostro istinto e di quell'amore senza il quale non ci resterebbe che disperazione.
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