Il fascino della Scandinavia, i paesaggi imbiancati, i fiocchi di neve. Elementi che solitamente, al cinema, se presenti, tendono a prendere il dominio, a caratterizzare, ad incidere. Eppure in "L'Uomo Di Neve" l’attenzione stranamente finisce per cadere sempre altrove, dove non ti aspetti, ma dove capisci tuttavia, dalla ridondanza ciclica, che c’è un messaggio da cogliere, messo lì, sotto la coperta bianca, da decifrare.
Sono le finestre infatti ad attirare l’attenzione principale nella pellicola di Tomas Alfredson, onnipresenti nelle case (a volte usate anche come pareti) e nella maggior parte degli ambienti in cui passa, anzi spia, la macchina da presa: finestre spesso costruite in maniera gigantesca, inappropriata e raramente sostituite dagli specchi, anch’essi, guarda un po’, utilissimi al regista per svolgere quella funzione di sovrapposizione e disorientamento fondamentale ai fini della narrazione. Questo perché, in sostanza, di gioco di specchi si tratta questo suo personale adattamento del romanzo di Jo Nesbø, nel quale volontariamente, e sin dall'inizio, la trama thriller passa in secondo piano dando sfogo al simbolismo e alla rilettura di determinate dinamiche narrative, capaci di mettere lo spettatore su strade male asfaltate, confondendogli le idee e lasciandogli sempre un dubbio da poggiare da parte o da risolvere. Una mossa eseguita quasi in maniera subliminale, silenziosa e che permette ad Alfredson di indossare anche lui i panni del serial killer: seminando indizi poco (o troppo) chiari qui e la - magari approfittando, furbo, della nostra fiducia - e rendendo ancor più viva e interessante quella spartizione dei ruoli - tendenzialmente automatica, in questi casi - in cui lo spettatore cerca di rendersi più intelligente dei protagonisti provando a indovinare in anticipo il colpevole dei vari omicidi.
Tutto questo senza l’obbligo di mischiare o rendere incomprensibile un flusso delle indagini e una successione di eventi che - tolta qualche stonatura voluta, appunto, e qualche flashback - restano perfettamente comprensibili e ordinati sia a livello di tensione che di ritmo, sorretti da un'atmosfera gelida in sottofondo avente cadenza incessante e quindi assai utile ad impartire i toni.
Che tanto poi non è neppure così rilevante per Alfredson nascondere il suo assassino allo spettatore, anzi. Di cliché ne è carica la sua pellicola: di quei spaccati in cui vuole farti credere che il colpevole è uno perché è uno stronzo, o perché sta nascondendo qualcosa che noi abbiamo visto e gli altri no o comunque non possono provare. Però fa tutto parte del suo piano, lo sappiamo noi come lo sa lui che in queste trappole ormai non ci casca più nessuno, ed è per questo che c'è bisogno ne vengano preparate di nuove. Solo che per farlo, e per farlo con maestria, serve padronanza della macchina da presa, del linguaggio cinematografico; serve essere capaci di filtrare gli sguardi, di seminare apparenze artefatte come il serial killer dei pupazzi di neve semina chicchi di caffè: una pratica non alla portata di molti, ma soprattutto una pratica decisamente acuta e non di grande impatto come quella più antica e storica del colpo di scena.
Quello che, sostanzialmente, in "L'Uomo Di Neve" non è innescato, non c'è, proprio perché non è nella trama che il suo regista ha voluto mettere le sue energie: e a testimoniarlo è un finale che, se vogliamo, offre persino poca soddisfazione in termini di risoluzione e di sostanza. Un finale dove quelle finestre e quei specchi vanno man mano riducendosi toccando sempre più quota zero, visto e considerato che fisiologicamente i nodi devono venire al pettine, essere sciolti e perciò abbandonare quel livello superiore che per buona parte e con grande intelligenza Alfredson (ci) aveva velatamente imbastito, ridendo sornione.
Trailer:
Sono le finestre infatti ad attirare l’attenzione principale nella pellicola di Tomas Alfredson, onnipresenti nelle case (a volte usate anche come pareti) e nella maggior parte degli ambienti in cui passa, anzi spia, la macchina da presa: finestre spesso costruite in maniera gigantesca, inappropriata e raramente sostituite dagli specchi, anch’essi, guarda un po’, utilissimi al regista per svolgere quella funzione di sovrapposizione e disorientamento fondamentale ai fini della narrazione. Questo perché, in sostanza, di gioco di specchi si tratta questo suo personale adattamento del romanzo di Jo Nesbø, nel quale volontariamente, e sin dall'inizio, la trama thriller passa in secondo piano dando sfogo al simbolismo e alla rilettura di determinate dinamiche narrative, capaci di mettere lo spettatore su strade male asfaltate, confondendogli le idee e lasciandogli sempre un dubbio da poggiare da parte o da risolvere. Una mossa eseguita quasi in maniera subliminale, silenziosa e che permette ad Alfredson di indossare anche lui i panni del serial killer: seminando indizi poco (o troppo) chiari qui e la - magari approfittando, furbo, della nostra fiducia - e rendendo ancor più viva e interessante quella spartizione dei ruoli - tendenzialmente automatica, in questi casi - in cui lo spettatore cerca di rendersi più intelligente dei protagonisti provando a indovinare in anticipo il colpevole dei vari omicidi.
Tutto questo senza l’obbligo di mischiare o rendere incomprensibile un flusso delle indagini e una successione di eventi che - tolta qualche stonatura voluta, appunto, e qualche flashback - restano perfettamente comprensibili e ordinati sia a livello di tensione che di ritmo, sorretti da un'atmosfera gelida in sottofondo avente cadenza incessante e quindi assai utile ad impartire i toni.
Che tanto poi non è neppure così rilevante per Alfredson nascondere il suo assassino allo spettatore, anzi. Di cliché ne è carica la sua pellicola: di quei spaccati in cui vuole farti credere che il colpevole è uno perché è uno stronzo, o perché sta nascondendo qualcosa che noi abbiamo visto e gli altri no o comunque non possono provare. Però fa tutto parte del suo piano, lo sappiamo noi come lo sa lui che in queste trappole ormai non ci casca più nessuno, ed è per questo che c'è bisogno ne vengano preparate di nuove. Solo che per farlo, e per farlo con maestria, serve padronanza della macchina da presa, del linguaggio cinematografico; serve essere capaci di filtrare gli sguardi, di seminare apparenze artefatte come il serial killer dei pupazzi di neve semina chicchi di caffè: una pratica non alla portata di molti, ma soprattutto una pratica decisamente acuta e non di grande impatto come quella più antica e storica del colpo di scena.
Quello che, sostanzialmente, in "L'Uomo Di Neve" non è innescato, non c'è, proprio perché non è nella trama che il suo regista ha voluto mettere le sue energie: e a testimoniarlo è un finale che, se vogliamo, offre persino poca soddisfazione in termini di risoluzione e di sostanza. Un finale dove quelle finestre e quei specchi vanno man mano riducendosi toccando sempre più quota zero, visto e considerato che fisiologicamente i nodi devono venire al pettine, essere sciolti e perciò abbandonare quel livello superiore che per buona parte e con grande intelligenza Alfredson (ci) aveva velatamente imbastito, ridendo sornione.
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