Suburbicon - La Recensione

A stento crediamo che la sceneggiatura tirata fuori dal cassetto dei fratelli Coen da George Clooney fosse rinchiusa lì dentro per puro caso, o per forza maggiore. E il fatto che sia stato Clooney stesso, non appena in possesso, a volerla riscrivere e modificare, facendosi affiancare dal suo partner di fiducia Grant Heslov, centra poco, perché, più che altro, i dubbi su “Suburbicon” arrivano tutti una volta che viene deciso di vuotare il sacco, ammettendo veramente dove si vuole andare a parare e (parzialmente) per quale motivo.

Si dice che, in sostanza, Clooney abbia aggiunto all'idea originale la sottotrama legata all’integrazione razziale, nello specifico l’arrivo di una famiglia di colore in questa città ideale - dove sembra che la vita sia non molto distante a quella che ci capitava di vedere tempo fa nelle vecchie pubblicità della Mulino Bianco - che manda in tilt buone maniere e apparenze, per favorire comportamenti incivili e aggressivi. Imbeccata alla quale è sin troppo facile credere, visto e considerato che, proprio tale parentesi, in “Suburbicon”, sembra essere costantemente corpo estraneo rispetto al centro dell’attenzione dedicato alla disgrazia e alle assurde ripercussioni che colpiscono Matt Damon e la sua famiglia. Eppure parliamo di un ampliamento che, tuttavia, in un certo senso, è quasi fisiologico: perché aggiorna e rende contemporanea la storia di una pellicola che, probabilmente, lasciata così com'era avrebbe lo stesso avuto la chiave per sbloccare e smuovere determinati ragionamenti e critiche al suo paese d'appartenenza, ma andando a perdere, di fatto, un'appendice che, secondo il Clooney-pensiero - possiamo supporre - era importante tanto quanto il resto, se non addirittura di più. Così, quella che in mano ai Coen, se l’avessero voluto (ma c'era da lavorarci su parecchio, mi sa), poteva diventare qualcosa di completamente folle, divertente e sopra le righe, attraverso questo passaggio di consegna e di revisione, finisce col subire un raffreddamento di toni abbastanza evidente, virando verso una satira politica dal sapore altrettanto nero e grottesco, ma con intenti maggiormente seri, o comunque meno propensi a farci capire che il nonsense sia al primo posto.

Suburbicon George ClooneyL’attrazione di Clooney per coloro che dovrebbero occuparsi dello Stato, della società e della sua educazione, del resto, - e non è un segreto - è al pari di quella che negli ultimi anni, lui stesso, ha dimostrato di avere nei confronti del cinema. Anzi, a dirla tutta, per molti sembra che nell’ultimo periodo, colpa o merito anche delle recenti elezioni Americane, – che non vengono affatto sottovalutate da questo film - l’equilibrio si sia addirittura spostato, sfavorendo quello che fino ad oggi era, ed è ancora, considerato il suo mestiere primario. Chiacchiere e teorie effimere, per quanto ci riguarda, che avremmo volentieri assorbito in maniera relativa e superflua, se solo “Suburbicon” avesse fatto qualcosa per spazzarle via, rispedendole al mittente, invece di concedergli un terreno fertile spaventoso, capace di rinforzarle e di renderle all’improvviso non trascurabili minimamente. La percezione che ad avere la priorità, infatti, nella pellicola, non sia tanto la scrittura e l’amalgama della stessa, ma il messaggio corrosivo e spietato, rivolto a una nazione che, anziché armonizzarsi, si sta operando per alzare barriere divisorie, è ampia e indubbia; allo stesso modo di com’è indubbio che questo abbia sacrificato non poco le potenzialità di uno script orientato in partenza a tutt’altro sfogo.

La buona notizia è che, nonostante ciò, a "Suburbicon", gli va riconosciuto il pregio di mantenere intatte le sue ossa, affermandosi ugualmente prodotto valido e piacevole, capace di andare oltre ogni messaggio subliminale o secondo fine. Poi, ecco, il tocco di Clooney magari non sarà quello acuto e meticoloso di un tempo, cinematograficamente parlando, ma questo, forse, è un discorso diverso, che potrebbe trovare soluzione e giustifica in un prossimo futuro.

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