Che Liam Neeson sia diventato ormai un’icona del genere action è cosa assodata.
Una fetta massiccia di pubblico da anni lo segue, lo esalta, lo idolatra, spedendogli – com'è successo per esempio con “L’Uomo Sul Treno: The Commuter” – anche sceneggiature scritte appositamente per lui in cui gli si chiede di tornare a vestire i panni del solito badass - meglio se padre di famiglia - al quale sarebbe consigliabile non rompere mai le scatole e far perdere la pazienza. Un vestito, questo, che però a Neeson sembra cominci a stargli un po’ strettino; che l’attore non ha perduto la voglia di sfoggiare, ma che vorrebbe gli fosse cucito addosso perlomeno su misura. Una misura più comoda e credibile, diciamo.
Non è un caso allora se l’inizio di “L’Uomo Sul Treno: The Commuter” è ricco di stacchi di montaggio - anche bruschi e discutibili - studiati apposta per dare, nel minor tempo possibile, l’informazione allo spettatore che il protagonista della storia stavolta sarà un uomo-medio, un uomo di famiglia semplice, una persona che la mattina va a lavoro, come la maggior parte della gente, con l'obiettivo di far fronte alle spese e al benessere della propria moglie e del proprio figlio. Una quotidianità che, appunto, scopriamo essere ciclica, ridondante, macchiata al massimo da giorni grigi anziché soleggiati, da cambi di temperature e di stagione e, ogni tanto, di umore: con qualche discussione neppure troppo accesa, utile ad allontanare lo stereotipo di una felicità perenne, tipica del Mulino Bianco. Insomma Neeson stavolta non è un ex-agente segreto, non è un ex-sicario, ma un assicuratore che ama il suo lavoro così come ama quell’ordinarietà che lo contraddistingue e lo rassicura. O almeno fino a un certo punto. Perché quando a lavoro gli mostrano il benservito - giustificato dalla solita crisi - scopriamo che, in realtà, prima di stipulare polizze, il suo personaggio era uno stimato agente di polizia, passato a un mestiere meno rischioso a causa di quel senso di responsabilità che un capo-famiglia dovrebbe avere e tenere in considerazione.
Del resto non poteva essere altrimenti, è una questione, appunto, di credibilità, di limitare il ridicolo, di giustificare uno spettacolo a cui mancherebbe sennò la terra sotto i piedi; uno spettacolo che, per quanto gratuito, gonfiato e composto per essere in sintonia con chi ne andrà a usufruire e a godere – ovvero persone disinteressate al pelo nell’uovo - non può fare a meno di quel briciolo di attenuanti, a grandi linee accettabili e capaci di reggere il gioco.
Un gioco, quello di “L’Uomo Sul Treno”, che a essere sinceri non fila liscio come avremmo sperato, arrancando, forse, più del dovuto e incasellando lungo il suo tragitto, sì’ e no, appena due colpi degni del genere e degni di nota: gli unici tuttavia capaci di scatenare l’accenno di una tensione davvero palpabile in oltre cento minuti di pellicola.
Media da rivedere, sicuramente, e vale lo stesso per un finale telefonato nel quale i (fantomatici) colpi di scena, la retorica (l'esaltazione del proverbio "l'unione fa la forza!") e i buonismi prendono il sopravvento, guastando ulteriormente un prodotto, magari guardabile, intrigante nel provare a emulare il cinema di Agatha Christie e Hitchcock, ma comunque, nel complesso, assai modesto e dimenticabile.
Trailer:
Una fetta massiccia di pubblico da anni lo segue, lo esalta, lo idolatra, spedendogli – com'è successo per esempio con “L’Uomo Sul Treno: The Commuter” – anche sceneggiature scritte appositamente per lui in cui gli si chiede di tornare a vestire i panni del solito badass - meglio se padre di famiglia - al quale sarebbe consigliabile non rompere mai le scatole e far perdere la pazienza. Un vestito, questo, che però a Neeson sembra cominci a stargli un po’ strettino; che l’attore non ha perduto la voglia di sfoggiare, ma che vorrebbe gli fosse cucito addosso perlomeno su misura. Una misura più comoda e credibile, diciamo.
Non è un caso allora se l’inizio di “L’Uomo Sul Treno: The Commuter” è ricco di stacchi di montaggio - anche bruschi e discutibili - studiati apposta per dare, nel minor tempo possibile, l’informazione allo spettatore che il protagonista della storia stavolta sarà un uomo-medio, un uomo di famiglia semplice, una persona che la mattina va a lavoro, come la maggior parte della gente, con l'obiettivo di far fronte alle spese e al benessere della propria moglie e del proprio figlio. Una quotidianità che, appunto, scopriamo essere ciclica, ridondante, macchiata al massimo da giorni grigi anziché soleggiati, da cambi di temperature e di stagione e, ogni tanto, di umore: con qualche discussione neppure troppo accesa, utile ad allontanare lo stereotipo di una felicità perenne, tipica del Mulino Bianco. Insomma Neeson stavolta non è un ex-agente segreto, non è un ex-sicario, ma un assicuratore che ama il suo lavoro così come ama quell’ordinarietà che lo contraddistingue e lo rassicura. O almeno fino a un certo punto. Perché quando a lavoro gli mostrano il benservito - giustificato dalla solita crisi - scopriamo che, in realtà, prima di stipulare polizze, il suo personaggio era uno stimato agente di polizia, passato a un mestiere meno rischioso a causa di quel senso di responsabilità che un capo-famiglia dovrebbe avere e tenere in considerazione.
Del resto non poteva essere altrimenti, è una questione, appunto, di credibilità, di limitare il ridicolo, di giustificare uno spettacolo a cui mancherebbe sennò la terra sotto i piedi; uno spettacolo che, per quanto gratuito, gonfiato e composto per essere in sintonia con chi ne andrà a usufruire e a godere – ovvero persone disinteressate al pelo nell’uovo - non può fare a meno di quel briciolo di attenuanti, a grandi linee accettabili e capaci di reggere il gioco.
Un gioco, quello di “L’Uomo Sul Treno”, che a essere sinceri non fila liscio come avremmo sperato, arrancando, forse, più del dovuto e incasellando lungo il suo tragitto, sì’ e no, appena due colpi degni del genere e degni di nota: gli unici tuttavia capaci di scatenare l’accenno di una tensione davvero palpabile in oltre cento minuti di pellicola.
Media da rivedere, sicuramente, e vale lo stesso per un finale telefonato nel quale i (fantomatici) colpi di scena, la retorica (l'esaltazione del proverbio "l'unione fa la forza!") e i buonismi prendono il sopravvento, guastando ulteriormente un prodotto, magari guardabile, intrigante nel provare a emulare il cinema di Agatha Christie e Hitchcock, ma comunque, nel complesso, assai modesto e dimenticabile.
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