A Quiet Place: Un Posto Tranquillo - La Recensione

A Quiet Place Krasinski
Viene principalmente dalle commedie John Krasinski, un genere che nella sua filmografia di attore torna di continuo, incessante, con qualche rara sterzata verso il dramma e sporadiche incursioni nel cinema d’azione. Ci era sembrato scontato, allora, quando due anni fa lo vedemmo, per la prima volta, dietro la macchina da presa – in quella che, in realtà, era la sua opera seconda (ma pure la prima non è che andasse altrove) – apprendere che, anche registicamente, la direzione da lui imboccata fosse, per torni e assimilazione, l'unica possibile: con quel “The Hollars” che, tra risate e lacrime, danzava intorno allo stile di Cameron Crowe, pur potendo permettersi un guscio e un contenuto (ancora) fin troppo scolastici e convenzionali.

Questo solo per risaltare ulteriormente quanto possa averci spiazzato, adesso, il vederlo alle prese con quello che non sbaglieremmo a definire un horror spinto, uno di quelli in cui la suspense è protagonista onnipresente, a 360°, e che - tanto per rendere ancor più difficili le cose - parte da un presupposto pazzesco, originale (nella forma) e quindi rischiosissimo. Provate un attimo a immaginare al gioco del silenzio, dove, in questo caso, però, chi resta muto vince la vita e chi cede, lasciandosi andare a qualunque tipo di suono che non sia un sussurro, muore insindacabilmente. E’ la situazione che si è creata nel 2020 presentato in “A Quiet Place: Un Posto Tranquillo”, con l’arrivo sulla terra, già consolidato, di alcuni mostri alieni senza vista, ma dotati di un incredibile e affinato udito; mostri che identificano perciò le loro prede in base al rumore emesso, raggiungendole come il leone fa con la gazzella e concedendo loro lo stesso trattamento. Un vincolo che – e Krasinski lo lascia solo intuire – ha sfavorito maggiormente le metropoli (forse defunte?), fornendo speranze minime, ma superiori alla media, a tutti gli abitanti delle zone rurali: questo sebbene l’handicap da sostenere resti comunque pesante e non facile da controllare.
Ne sa qualcosa la famiglia Abbott, avvantaggiata, probabilmente, dalla conoscenza dei segni legata alla nascita di una figlia sordo-muta (la maggiore rispetto agli altri due maschietti), ma non per questo immune al pericolo micidiale delle creature, come ci indica, impetuoso, l’agghiacciante prologo d’apertura.

A Quiet Place KrasinskiNon può che essere il silenzio, di conseguenza, a prevalere in “A Quiet Place: Un Posto Tranquillo”, un silenzio d'oro, sacro, che equivale praticamente all'ossigeno. Non ci sono dialoghi infatti nella pellicola di Krasinski, quando si comunica lo si fa a gesti - che per il pubblico sono sottotitolati - e l'unico audio percepito dalle nostre orecchie è quello di una quiete ambientale naturale, rotta esclusivamente o da incidenti domestici imprevisti - causati dai protagonisti - oppure da passi falsi commessi dai residui superstiti. Solo in un paio di scene - per motivi ben precisi e in linea con l'impianto scenico - padre e figlio e marito e moglie riescono a dirsi quattro frasi in maniera quasi normale, salvo poi tornare alla normalità-anormale e rientrare su quei binari rigidi, impostati. Quei binari che, all'interno della storia, vengono evidenziati, ben definiti, così come illuminati: si cammina, non a caso, scalzi e su tracciati di terra bianca idonei ad attutire i passi, accendendo lampadine rosse intorno alla casa, se un pericolo è in corso o in arrivo. Questo sebbene la cosa straordinaria, entusiasmante e più intelligente eseguita da Krasinski, resti non tanto l'aver pensato (e reso efficace) un mondo privo di parole e di caos - che pure qualcosa vorrà dire nell'epoca dei social network e del processo tecnologico - , mettendoci dentro anche quel microcosmo famigliare che, pure, col dialogo spesso litiga e va in crisi, quanto la precisione nell'aver centrato la costruzione di uno scheletro di tensione lungo e largo, incapace di spegnersi come di allentarsi; un senso di angoscia potentissimo e fluido che pervade la visione dello spettatore all'istante, tenendolo sul filo dello spavento fino ai titoli di coda.

Ecco perché la sensazione che si ha, una volta tornati a respirare con regolarità e a pieni polmoni, è quella di avere assistito a una prodigiosa, nuova e palpitante esperienza cinematografica, una di quelle - per capirci - che si potrebbero provare nelle case degli orrori dei luna park, se organizzate a un certo livello. L'impatto che Krasinski è riuscito a cucire con l'horror - da esperto conoscitore, sospettiamo - è fenomenale, paragonabile solo all'esplosione di una bomba, qualcosa quindi per cui vale la pena urlare e fare rumore, affinché tutti si voltino ad osservarla, senza che il silenzio la faccia passare inosservata.
L'unico consiglio (o incognita, se vogliamo) è che per godere al massimo di un'opera così formidabile, servirebbe davvero una sala cinematografica il più vicina possibile ad un posto tranquillo, che, per esperienza, sappiamo quanto sia complicata da rintracciare. 

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