Molly's Game - La Recensione

Molly's Game Chastain
Fa un effetto strano guardare “Molly’s Game” e pensarlo come esordio alla regia di Aaron Sorkin.
Fa un effetto strano perché, in un modo o nell'altro, dalla novità ci si aspetterebbe di notare la sua influenza dietro la macchina da presa; la presenza di un tocco stilistico, anche minimo, capace di contraddistinguersi dall'autorialità di altri nomi che, in passato, hanno avuto il privilegio di dirigere le sue opere, insomma, quell'evidente impronta messa lì a confermare che uno degli sceneggiatori migliori di Hollywood (il migliore?), finalmente, ha deciso di mettersi in proprio senza delegare più a terzi (in questo frangente, almeno) la realizzazione delle sue fatiche.

Ma invece no, invece non è così, perché la cosa più netta comunicata da “Molly’s Game” - o che comunque traspare - è quanto, all'interno di un copione scritto da Sorkin, le soluzioni di regia spuntino già tracciate, battute, suggerite da una cifra verbale, con cadenza a martello, che da' limitatissimi margini di autonomia al suo esecutore: rivelando quanto sia complicato e allo stesso tempo semplice realizzare concretamente i suoi lavori, ma ancora di più mostrando quanto siano designati ad apparire tutti, involontariamente e fatalmente, figli dello stesso padre. Ci sono tracce di “The Social Network”, “Steve Jobs” e di “Codice D’Onore” infatti a istituire la forma della pellicola, attimi in cui si riesce a passare, repentinamente, dalle atmosfere tipiche del cinema fincheriano, all'eccentricità di montaggio di Danny Boyle, toccando, a tratti, la compostezza del dramma legale, senza perdere mai di vista neppure l’eleganza e la fluidità di una narrazione classica alla-Bennett-Miller, fondamentale per portare a casa storie di questo genere. Il romanzo omonimo e autobiografico scritto dalla vera Molly Bloom, del resto, denuncia uno spaccato della sua vita talmente incredibile, complesso e seducente che per adattarlo al cinema serviva solo la volontà di fare i conti con l’imbarazzo della scelta; uno spaccato nel quale la donna da cameriera spiantata ed ex atleta di sci acrobatico qual era, diventa in poco tempo la leggendaria Principessa Del Poker: organizzatrice di partite a carte clandestine, dove attori, persone di enorme spessore e, in seguito, persino mafiosi russi, sgomitavano e pregavano pur di rimediare un biglietto d’ingresso utile a farli sedere intorno a uno dei suoi tavoli verdi.

Molly's Game CostnerL'unico, forse, che della materia di quel libro se ne sarebbe volentieri infischiato, svoltando a sorpresa verso una strada sterrata tutta da costruire, ma che proprio per questo - per le insidie che poneva, appunto - sembrava apparire come la più intrigante di tutte, non poteva allora che essere Sorkin (il quale, per certi versi, è come se avesse scritto un capitolo aggiuntivo tutto suo). Perché nelle sue mani "Molly's Game" assume un significato anomalo, intrinseco, inaspettato, cucito su misura sul corpo e sulla psiche di una donna, sostanzialmente, per bene che - un po' per puro caso, un po' per colpa di un padre eccessivamente severo - si ritrova detentrice di un potere gigantesco e manipolatore, da esercitare in salotti a uso e consumo di clientela rigorosamente maschile. Così, quella che sarebbe potuta essere una pellicola ordinaria - magari da aprire con una voce fuori campo e le immagini di un processo, andando poi a ritroso per mostrare quanto accaduto in precedenza - nelle sue mani muta in qualcosa di simile, ma contemporaneamente anarchico, guidato da un filo temporale irregolare, mai confusionario e da un ritmo incalzante e un’ironia acutissima che vanno a ridursi leggermente solo nelle battute conclusive, evidenziando un minimo di fisiologico affaticamento (una ventina di minuti in meno avrebbero aiutato).

Quello di un film oggettivamente imperfetto, distante dal raggiungere le vette conquistate dal Sorkin migliore, eppure che riesce immediatamente e con disarmate facilità a imporsi magnetico e attraente come la figura catalizzatrice di una gigantesca Jessica Chastain che di rado abbiamo avuto il piacere di vedere così orgogliosamente procace e provocante davanti a uno schermo (praticamente una leonessa).
Un film, anche, capace - attraverso la sottile denuncia rivolta all'ipocrisia americana - di riscattare la reputazione di una donna dal carattere forte e determinato, integra nei suoi valori (al punto da arrivare a considerarla un esempio) e, probabilmente, in parte, vittima di un sistema più interessato ad usarla che a volerla punire.

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