Il green book del titolo è una sorta di guida turistica indispensabile a tutti quei vacanzieri, neri, che durante la Guerra di Secessione Americana, avevano intenzione - per esigenze di forza maggiore, magari - di viaggiare verso il Sud dell'America e conservare un briciolo di possibilità di tornare indietro. Al suo interno, infatti, erano riportati tutti i ristoranti, alberghi e punti d’interesse di quella parte di paese che accettava di servire e di ospitare clienti afroamericani, che altrove, invece, venivano, o semplicemente allontanati, oppure, nella maggior parte dei casi, pestati a sangue.
Glie ne viene consegnato uno all'italo-americano, Tony “Lip” Vallelonga – disoccupato per due mesi, a causa della chiusura del locale in cui lavorava come buttafuori – non appena viene assunto dal pianista di colore, Don Shirley, per fargli da autista, e da scaccia-grane, nel tour che - insieme a due musicisti bianchi - dovrà portarlo a calcare determinati palcoscenici di quelle zone: dove i ricchi che lo reclamano adorano vederlo all’opera, ma non ne vogliono sapere di fargli sconti razziali quando non è sul palco. Una convivenza forzata, insomma, tra due uomini posti agli antipodi: e non solo per via dei pregiudizi legati all’etnia – che Tony trattiene a fatica - ma anche, e soprattutto, per un dislivello di classe, che non li aiuta a ridurre le distanze neppure sotto l'aspetto culturale. Già, perché, nonostante il colore della sua pelle – che all’epoca stava quasi sempre a significare che o eri povero, o schiavo (o entrambi) – per Shirley le cose erano insolite: il suo talento lo aveva portato ad avere una solidissima stabilità economica, a vivere in una dimora piuttosto lussuosa e ad avvalersi di una servitù disponibilissima. Tutto il contrario della situazione di Tony: il quale - con due figli e moglie a carico – pur di riuscire a portare uno straccio di stipendio a casa, era disposto a partecipare persino a duelli culinari estemporanei, in cui per vincere era necessario mangiare più hot-dog dell'avversario.
Glie ne viene consegnato uno all'italo-americano, Tony “Lip” Vallelonga – disoccupato per due mesi, a causa della chiusura del locale in cui lavorava come buttafuori – non appena viene assunto dal pianista di colore, Don Shirley, per fargli da autista, e da scaccia-grane, nel tour che - insieme a due musicisti bianchi - dovrà portarlo a calcare determinati palcoscenici di quelle zone: dove i ricchi che lo reclamano adorano vederlo all’opera, ma non ne vogliono sapere di fargli sconti razziali quando non è sul palco. Una convivenza forzata, insomma, tra due uomini posti agli antipodi: e non solo per via dei pregiudizi legati all’etnia – che Tony trattiene a fatica - ma anche, e soprattutto, per un dislivello di classe, che non li aiuta a ridurre le distanze neppure sotto l'aspetto culturale. Già, perché, nonostante il colore della sua pelle – che all’epoca stava quasi sempre a significare che o eri povero, o schiavo (o entrambi) – per Shirley le cose erano insolite: il suo talento lo aveva portato ad avere una solidissima stabilità economica, a vivere in una dimora piuttosto lussuosa e ad avvalersi di una servitù disponibilissima. Tutto il contrario della situazione di Tony: il quale - con due figli e moglie a carico – pur di riuscire a portare uno straccio di stipendio a casa, era disposto a partecipare persino a duelli culinari estemporanei, in cui per vincere era necessario mangiare più hot-dog dell'avversario.
Ma in questo divertentissimo viaggio on-the-road, diretto da Peter Farrelly (stranamente orfano del fratello Bobby), tali distanze sono destinate lentamente ad accorciarsi, a ridursi, a farsi beffa della superficie, come delle dispute politiche sbandierate da uno Stato spaccato e in crisi. Perché quello tra Tony e Shirley è un rapporto sincero, onesto, e lo è sia quando, all’inizio, tra i due, c’è la classica comunicazione tra capo e dipendente – col dipendente che, per non farsi capire, lo insulta in un dialetto italiano incomprensibile – e sia quando il feeling comincia a crescere, prendendo il tragitto di un’amicizia un po’ stravagante e curiosa, ma comunque destinata a consolidarsi e a farsi eterna. I passi per guadagnarsi il punto d'incontro, tra i due, vengono spontaneamente, a turno, tramite l’intelligenza – fondamentale, in questi casi, a prescindere dalle formazioni scolastiche – di chi è consapevole dei propri spigoli, mancanze e chiusure, ma sceglie lo stesso di provare a vedere - con un movimento lievissimo, a volte - come ci si può sentire se, per un attimo, si accantona ogni riserva da un lato, fidandosi dell'altro (la scena del pollo fritto, in tal senso, è esemplare e meravigliosa).
E dire che era partito un po’ con la sensibilità di un’accetta “Green Book”, tagliato in maniera un po’ grossolana da un regista – che è quello di “Tutti Pazzi Per Mary”, non scordiamolo - che ci mette un po’ a prendere le misure; a mescolare i tempi e le volgarità (forse, sulle prime, un poco diluibili) di Viggo Mortensen col rigore e l'eleganza di Mahershala Ali. Un processo, però, che non appena assestato lascia intravedere tutta l’anima di un film che – imperfezioni comprese – sa benissimo come conquistare e intrattenere lo spettatore, ma più di tutto, come farlo senza essere né troppo furbo e didascalico.
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