Halloween (2018) - La Recensione

Halloween (2018) Gordon Green
Da un lato la voglia di riportare in vita un franchise redditizio: tenendo conto, il giusto, dei vari sequel per scriverne un undicesimo in grado di avere un legame diretto con l’originale – nonostante i quarant’anni – e di elettrizzare promettendo una réunion con Jamie Lee Curtis che fa tanto rima con resa dei conti.

Dall'altro la volontà di sfruttare quel colossale spazio temporale per andare a rileggere un classico dell’horror, riprendergli le misure e, in caso, aggiornarlo: provando a capire come, e se, certe regole e punti fermi siano cambiati, morti o ancora vivi.

Su una cosa, però, la pellicola di David Gordon Green non transige. Michael Myers morto non è, cambiato forse (l’età si fa sentire), ma sicuramente è vivo (cattivissimo) e vegeto. Lo ritroviamo in un manicomio, incatenato e circoscritto da un rettangolo di nastro adesivo che ne delimita i movimenti: una struttura da cui a breve verrà trasferito – e il cinema insegna che non esiste metodo di fuga migliore, per un criminale – ma non prima di avere incontrato una coppia di giornalisti d’inchiesta che avrebbe intenzione d’intervistarlo – stimolandolo, maschera alla mano – per fargli aprire bocca e, magari, rivelarsi umanamente. In realtà, il piano di quest’ultimi, è ben più spinoso, perché comprenderebbe anche la confessione di una Laurie Strode invecchiata, isolata e emarginata dalla famiglia, che ha chiuso i ponti col mondo esterno e sta aspettando solamente di esaudire il suo unico desiderio: la vendetta personale nei confronti di chi gli ha rovinato l’esistenza. Un quadretto, niente male, quindi: con due topi da laboratorio stuzzicati a distanza da chi non sa in che guaio si sta cacciando, disposti a fare carte false per guardarsi faccia a faccia un’ultima volta e mettere il punto definitivo. Che siamo in prossimità di Halloween, neanche bisogna dirlo, probabilmente varrebbe più la pena sottolineare quanto Green ci abbia tenuto a riutilizzare i titoli di testa (e coda) dell’originale (ma stavolta la zucca parte sgonfia per poi ricomporsi), attingendo spesso – quando serve – anche alla splendida colonna sonora.

Halloween (2018) Jamie Lee CurtisLa volontà, infatti, è quella di comunicare subito allo spettatore (e al fan, e a Carpenter) che c’è una grande voglia di portare rispetto, di fare le cose educatamente, con criterio: sebbene non si possa non tenere conto che, a dispetto di quarant’anni fa, la storia di uno psicopatico ammazza baby-sitter, per giunta catturato e in custodia, non possa più occupare, sulla cronaca moderna, il medesimo scalpore e importanza (e viene detto esplicitamente). Che poi quello psicopatico non sia uno psicopatico qualsiasi, ma sia Myers, è una faccenda a parte, una faccenda che riguarda la saga di “Halloween” e il cinema, ma che deve restare al di fuori di un contesto semi-reale, intento a fotografare una gioventù e una società molto più spavalda e scettica. Molto di più, forse, di quanto non lo fosse già quella della figlia di Laurie, ostinata a respingere le pressioni di una madre che voleva proteggerla da un mondo tutt’altro che buono e compassionevole come lei lo definisce.

Perché, alla fine, questo nuovo appuntamento con “Halloween”, prima di abbandonarsi al suo destino - e darci quell’epilogo per il quale in molti pagheranno il biglietto – cerca di ragionare sul male e sul suo fascino orientato a distorcere il bene. Si chiede cosa possa provare un assassino, cosa lo spinga a uccidere di continuo, assetato di risposte e di domande che chiede anche a chi a quel male, con riserva, ma ci è sopravvissuto.

Certo, di risposte chiare e definitive non riesce a darne, non può, ma perlomeno permette a noi di ragionarci su, non appena l’intrattenimento mainstream chiude i battenti.

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