Chissà se la decisione di ritirarsi dalle scene Robert Redford l’ha presa prima, dopo o durante le riprese di “Old Man & The Gun”. Se era qualcosa su cui stava meditando in privato già da un pezzo, oppure se in qualche modo il venire a sapere della storia vera del criminale Forrest Tucker ha innescato in lui dei meccanismi particolari e imprevisti.
Superiori di gran lunga, magari, a quelli intuitivi, di forza cinematografica, che hanno spinto il regista David Lowery ad adattare in sceneggiatura l’articolo del giornalista David Grann (dall’omonimo titolo), uscito sul New Yorker nell’ormai lontano 2003.
Perché la sensazione è che con il fascino e la filosofia di vita di quest’uomo, Redford ci sia entrato pesantemente in contatto; che l’abbia capito, amato (rispecchiandocisi, a modo suo?): interpretandolo in maniera chirurgica, ma soprattutto assimilando e sposando quelli che erano i suoi (puri) principi di comportamento. Era un rapinatore di banche, infatti, Tucker, un fuorilegge alla John Dillinger, uno di quelli che l’abito fa il monaco e che il fascino e l’educazione sono un surplus indispensabile a spazzare via ogni sospetto. Però, era anche uno di quelli che faceva quel genere di lavoro non per soldi, non per comprare castelli e ostentare un tenore di vita da Re - la sua casa affaccia di fronte a un cimitero - ma per vivere un’esistenza libera dalla trappola capitalistica del guadagnarsi da vivere. Una scelta che, a sentirla oggi, sembra quasi fantascientifica, ma che, radicata tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, appariva decisamente più percorribile e concreta. E non solo nel campo della criminalità, ma persino nel suo esatto opposto. Non è un caso, del resto, se sulle tracce di Tucker, Lowery, decida di collocarci un detective – il John Hunt di Casey Affleck - che, come la sua preda, ama con tutto sé stesso ciò che fa, impegnandosi forse più di quanto i suoi superiori e colleghi si meriterebbero da lui.
Superiori di gran lunga, magari, a quelli intuitivi, di forza cinematografica, che hanno spinto il regista David Lowery ad adattare in sceneggiatura l’articolo del giornalista David Grann (dall’omonimo titolo), uscito sul New Yorker nell’ormai lontano 2003.
Perché la sensazione è che con il fascino e la filosofia di vita di quest’uomo, Redford ci sia entrato pesantemente in contatto; che l’abbia capito, amato (rispecchiandocisi, a modo suo?): interpretandolo in maniera chirurgica, ma soprattutto assimilando e sposando quelli che erano i suoi (puri) principi di comportamento. Era un rapinatore di banche, infatti, Tucker, un fuorilegge alla John Dillinger, uno di quelli che l’abito fa il monaco e che il fascino e l’educazione sono un surplus indispensabile a spazzare via ogni sospetto. Però, era anche uno di quelli che faceva quel genere di lavoro non per soldi, non per comprare castelli e ostentare un tenore di vita da Re - la sua casa affaccia di fronte a un cimitero - ma per vivere un’esistenza libera dalla trappola capitalistica del guadagnarsi da vivere. Una scelta che, a sentirla oggi, sembra quasi fantascientifica, ma che, radicata tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, appariva decisamente più percorribile e concreta. E non solo nel campo della criminalità, ma persino nel suo esatto opposto. Non è un caso, del resto, se sulle tracce di Tucker, Lowery, decida di collocarci un detective – il John Hunt di Casey Affleck - che, come la sua preda, ama con tutto sé stesso ciò che fa, impegnandosi forse più di quanto i suoi superiori e colleghi si meriterebbero da lui.
Due uomini, quindi, con cui si scende facilmente a patti; praticamente simili - nell'animo - e capaci di spazzare via il concetto di giustizia all'interno di una pellicola che, in realtà, non ha la minima intenzione – pur avendone il materiale - di far piedino al gangster-movie. Quella di Lowery è a tutti gli effetti una rom-com dal sapore malinconico, uno sguardo – stilistico, pure – su valori umani importantissimi che, probabilmente, stiamo perdendo o abbiamo perduto; un racconto composto con grandissima leggerezza e con l’umorismo di chi, appunto, è svincolato dal dovere di schierarsi e stabilire responsabilmente dove sta il bene e dove il male (tanto è evidente). In “Old Man & The Gun”, allora, quello che conta, la priorità, appartiene ai bisogni primari, all'istinto, al sorriso (da non perdere), all'amore: che Affleck conserva nel suo ambiente famigliare e che Redford, invece, pesca all'improvviso approfittandosi del momento di difficoltà di una Sissy Spacek dolcissima e (sempre) incisiva (con lei una delle scene più belle del film, in gioielleria; mentre l’altra è tra lui e Affleck, in un bagno pubblico).
Poi, si, magari l'aspirazione di divulgare al pubblico l'esistenza di una personalità così bizzarra e straordinaria, c'era; di farlo utilizzando il corpo e il carisma di un divo che potesse incarnare quello spirito, indossandolo a pennello, idem. Possedendolo quasi, al punto da ipotizzare che il vecchio Robert dopo essersi divertito un mondo e aver sorriso tanto, interpretando questo personaggio, sia arrivato alla conclusione che per lui, nel cinema, non poteva esserci uscita migliore.
Cosa che - salvo ripensamenti da parte sua - qui sentiamo di appoggiargli in toto.
Trailer:
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