Certo, il manifesto italiano non rende giustizia al nuovo film di Olivier Assayas, allo stesso modo di come non gli rende giustizia neppure il titolo: che in originale era “Doubles Vies” – ovvero Doppio Gioco – e da noi, non si sa come, è finito per diventare “Il Gioco Delle Coppie”.
Ma, in fondo, ci sta, va bene così, perché, involontariamente, tutto questo voler confondere, illudere lo spettatore che si tratti di una commedia parigina influenzata da whatsapp, e quindi alla-perfetti-sconosciuti, non fa altro che rafforzare quelle riflessioni che il suo regista davvero si pone, invitando a porcele anche a noi (ammesso e non concesso che la questione, seppur superficialmente, non ci abbia già sfiorati).
Stiamo cambiando, anzi, siamo cambiati: da capire è solo se – come scriveva il citato Giuseppe Tomasi di Lampedusa né “Il Gattopardo” – per fare in modo che tutto resti uguale. A vedere i protagonisti di“Il Gioco Delle Coppie” “Doubles Vies” (dai, facciamo i seri e chiamiamolo come merita) la sensazione, però, è che sia troppo presto per dare un giudizio a riguardo, sputare sentenze; ciò che possiamo fare, al massimo, è soffermarci sul concreto, su quel cambiamento causato dal digitale che, in qualche maniera ci sta influenzando e cambiando nel nostro stile di vita, come nei piccoli particolari. Non è unicamente una questione superficiale: ad Assayas non interessa porre l’accento su quanto e come utilizziamo uno smartphone, piuttosto che un tablet o un portatile durante il giorno. No, lui si arrovella per capire come l’accesso diretto a determinati apparecchi possa modificare il nostro rapporto nei confronti dell’arte, per esempio, della politica, e ultimo, ma non per importanza, degli affetti, e quindi dei rapporti in generale.
Nella sua pellicola (che potremmo anche definire pièce, per come è stata concepita), allora, è più che coerente ritrovarsi a seguire le vicende di un editore di successo alle prese con una digitalizzazione che non gradisce, ma che sa essere indispensabile per la sua sopravvivenza; di uno scrittore di non-fiction, la cui vena creativa è legata ai rapporti sentimentali che realmente vive, e delle rispettive donne (e amanti) di ognuno di loro, impegnate, una a fare l’attrice in una serie-tv seguitissima, ma che non la soddisfa, e l’altra come portavoce di un politico, forse, in ascesa.
Attraverso di loro, Assayas, può dare sfogo al suo fiume di parole, imbastire dialoghi, supposizioni e invettive che non paiono mai fuori luogo, bensì perennemente in linea col contesto e con la profondità intellettuale dei suoi personaggi. Con la razionalità di chi è consapevole di non trovarsi, per forza, dalla parte della ragione - ma nemmeno da quella del torto – il suo tentativo, infatti, è quello – nobilissimo – di provare a fare due calcoli, di tirare giù le somme: vedendo se i numeri che poi cadono davanti ai nostri occhi sono accettabili, oppure preoccupanti. Che l’arte sia in crisi, del resto, è un dato di fatto; che si legga di più, ma male – perché un libro sull'iPhone, ma come fai? – e siano aumentati i scrittori per via della spinta dei social - nonostante imparare a tweettare non sia la scuola migliore per guadagnarsi il diritto a un romanzo - è una piaga piuttosto evidente. Però, allo stesso tempo, esiste anche un discorso, più delicato e denso, relativo alla fruizione passiva: quella alimentata dai blog; da chiunque voglia (e può) esprimere la propria opinione, opportuna o meno, sparando a zero nel mucchio; delle notizie, a volte false, da cui bisogna sapersi difendere, e di personalità di spicco – come politici, magari - che decidono di svolgere il loro mestiere cavalcando l’onda, cedendo alla furbizia e incrementando quindi rabbia e odio contemporaneamente.
Un caos, un disordine che una volta entrato in moto e presa velocità può dar vita a un vortice pericolosissimo e impossibile da fermare. Vortice che, poi, è lo stesso che travolge tutti i protagonisti di “Doubles Vies”, i quali, perfettamente a conoscenza dei peccati e delle debolezze - loro, e di chi gli sta a fianco - cercano sempre di aggrapparsi al medicinale dell’ipocrisia e del silenzio per non dover affrontare la faticosa verità.
Quella che nel finale, Assayas, tuttavia sceglie di portare a galla per suggerirci che, probabilmente, è vero che tutto cambia affinché nulla cambi, e a dimostrarcelo potrebbe essere quel nostro sistema illogico di amare che da secoli (tra evoluzioni e rinnovamenti) rimane ancora un mistero, impossibile da decifrare.
Trailer:
Ma, in fondo, ci sta, va bene così, perché, involontariamente, tutto questo voler confondere, illudere lo spettatore che si tratti di una commedia parigina influenzata da whatsapp, e quindi alla-perfetti-sconosciuti, non fa altro che rafforzare quelle riflessioni che il suo regista davvero si pone, invitando a porcele anche a noi (ammesso e non concesso che la questione, seppur superficialmente, non ci abbia già sfiorati).
Stiamo cambiando, anzi, siamo cambiati: da capire è solo se – come scriveva il citato Giuseppe Tomasi di Lampedusa né “Il Gattopardo” – per fare in modo che tutto resti uguale. A vedere i protagonisti di
Nella sua pellicola (che potremmo anche definire pièce, per come è stata concepita), allora, è più che coerente ritrovarsi a seguire le vicende di un editore di successo alle prese con una digitalizzazione che non gradisce, ma che sa essere indispensabile per la sua sopravvivenza; di uno scrittore di non-fiction, la cui vena creativa è legata ai rapporti sentimentali che realmente vive, e delle rispettive donne (e amanti) di ognuno di loro, impegnate, una a fare l’attrice in una serie-tv seguitissima, ma che non la soddisfa, e l’altra come portavoce di un politico, forse, in ascesa.
Attraverso di loro, Assayas, può dare sfogo al suo fiume di parole, imbastire dialoghi, supposizioni e invettive che non paiono mai fuori luogo, bensì perennemente in linea col contesto e con la profondità intellettuale dei suoi personaggi. Con la razionalità di chi è consapevole di non trovarsi, per forza, dalla parte della ragione - ma nemmeno da quella del torto – il suo tentativo, infatti, è quello – nobilissimo – di provare a fare due calcoli, di tirare giù le somme: vedendo se i numeri che poi cadono davanti ai nostri occhi sono accettabili, oppure preoccupanti. Che l’arte sia in crisi, del resto, è un dato di fatto; che si legga di più, ma male – perché un libro sull'iPhone, ma come fai? – e siano aumentati i scrittori per via della spinta dei social - nonostante imparare a tweettare non sia la scuola migliore per guadagnarsi il diritto a un romanzo - è una piaga piuttosto evidente. Però, allo stesso tempo, esiste anche un discorso, più delicato e denso, relativo alla fruizione passiva: quella alimentata dai blog; da chiunque voglia (e può) esprimere la propria opinione, opportuna o meno, sparando a zero nel mucchio; delle notizie, a volte false, da cui bisogna sapersi difendere, e di personalità di spicco – come politici, magari - che decidono di svolgere il loro mestiere cavalcando l’onda, cedendo alla furbizia e incrementando quindi rabbia e odio contemporaneamente.
Un caos, un disordine che una volta entrato in moto e presa velocità può dar vita a un vortice pericolosissimo e impossibile da fermare. Vortice che, poi, è lo stesso che travolge tutti i protagonisti di “Doubles Vies”, i quali, perfettamente a conoscenza dei peccati e delle debolezze - loro, e di chi gli sta a fianco - cercano sempre di aggrapparsi al medicinale dell’ipocrisia e del silenzio per non dover affrontare la faticosa verità.
Quella che nel finale, Assayas, tuttavia sceglie di portare a galla per suggerirci che, probabilmente, è vero che tutto cambia affinché nulla cambi, e a dimostrarcelo potrebbe essere quel nostro sistema illogico di amare che da secoli (tra evoluzioni e rinnovamenti) rimane ancora un mistero, impossibile da decifrare.
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