La storia si ripete. Più o meno.
A trent’anni dalla morte di Apollo Creed per mano – anche se sarebbe più coerente dire per pugni – di Ivan Drago e dalla vendetta consumata da Rocky ai suoi danni, gli eventi sembrano voler convogliare verso un inquietante bis: col figlio di Creed appena eletto campione dei pesi massimi in America e il figlio di Drago in fortissima ascesa negli incontri disputati in Russia. Il marketing se ne accorge e non intende lasciarsi sfuggire questa opportunità, Ivan Drago pensa al riscatto che ciò potrebbe portare al suo nome, in patria, mentre Adonis – nonostante i freni di Rocky – sente di non potersi tirare indietro per via di suo padre.
Era forse l’unico canovaccio possibile, allora, quello da cui parte “Creed II”, sicuramente il migliore in termini di spettacolo e di retaggio: capace di concedere agli spettatori di vecchia e nuova generazione quell’adrenalina e quei sussulti che ci si aspettano davanti a una pellicola che fa della boxe la sua attrazione principale, ma ancora orbitante – tantissimo - attorno alla saga lanciata da Sylvester Stallone nel lontano 1976. Un amore infinito che l’attore continua a manifestare grandiosamente defilato in scena e da assoluto protagonista in scrittura: figurando tra gli sceneggiatori – al fianco di Cheo Hodari Coker e Ryan Coogler – e trasmettendo, quindi, la garanzia di un franchise non completamente robotizzato da una major, ma leale e attento a voler conservare la sua fama. Una virtù per nulla scontata e da non sottovalutare, percepibile sotto il testosterone e sotto i muscoli di una storia che - per quanto incanalata su binari dritti e inevitabilmente condizionati dal cuore – ce la mette tutta per aumentar di spessore, galvanizzare e accendere gli entusiasmi. Più che un sequel, infatti, l’impressione è quella di assistere ad una vera e propria prosecuzione, all’evoluzione e alla crescita di un personaggio che - come accadde per il suo coach ai bei tempi - deve iniziare a prendere coscienza di sé stesso, di chi gli sta intorno e dei motivi che lo spingono a salire sul ring.
A trent’anni dalla morte di Apollo Creed per mano – anche se sarebbe più coerente dire per pugni – di Ivan Drago e dalla vendetta consumata da Rocky ai suoi danni, gli eventi sembrano voler convogliare verso un inquietante bis: col figlio di Creed appena eletto campione dei pesi massimi in America e il figlio di Drago in fortissima ascesa negli incontri disputati in Russia. Il marketing se ne accorge e non intende lasciarsi sfuggire questa opportunità, Ivan Drago pensa al riscatto che ciò potrebbe portare al suo nome, in patria, mentre Adonis – nonostante i freni di Rocky – sente di non potersi tirare indietro per via di suo padre.
Era forse l’unico canovaccio possibile, allora, quello da cui parte “Creed II”, sicuramente il migliore in termini di spettacolo e di retaggio: capace di concedere agli spettatori di vecchia e nuova generazione quell’adrenalina e quei sussulti che ci si aspettano davanti a una pellicola che fa della boxe la sua attrazione principale, ma ancora orbitante – tantissimo - attorno alla saga lanciata da Sylvester Stallone nel lontano 1976. Un amore infinito che l’attore continua a manifestare grandiosamente defilato in scena e da assoluto protagonista in scrittura: figurando tra gli sceneggiatori – al fianco di Cheo Hodari Coker e Ryan Coogler – e trasmettendo, quindi, la garanzia di un franchise non completamente robotizzato da una major, ma leale e attento a voler conservare la sua fama. Una virtù per nulla scontata e da non sottovalutare, percepibile sotto il testosterone e sotto i muscoli di una storia che - per quanto incanalata su binari dritti e inevitabilmente condizionati dal cuore – ce la mette tutta per aumentar di spessore, galvanizzare e accendere gli entusiasmi. Più che un sequel, infatti, l’impressione è quella di assistere ad una vera e propria prosecuzione, all’evoluzione e alla crescita di un personaggio che - come accadde per il suo coach ai bei tempi - deve iniziare a prendere coscienza di sé stesso, di chi gli sta intorno e dei motivi che lo spingono a salire sul ring.
Figli che diventano uomini (e padri), dunque.

Perché secondo Rocky – e quindi secondo Stallone – ormai Adonis Creed ha ossa sufficientemente forti per andare avanti senza di lui, per emergere come protagonista assoluto della sua saga e provare ad imporsi come icona delle nuove generazioni, alla stregua di come lui riuscì a fare con le precedenti.
E che tale pensiero possa trovarci d'accordo o meno, in realtà, poco importa, visto che sicuramente nessuno di noi ha voglia di provare a discutere con lui, cercando di fargli cambiare idea.
Trailer:
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