Suspiria - La Recensione

Suspiria Guadagnino
Il ragionamento in questi casi tende ad essere spaccato in due.

Si potrebbe valutare il “Suspiria” di Luca Guadagnino come un remake reinterpretato da un autore secondo il suo stile, oppure in base a quello schianto, evitato, che in molti – fanatici del genere e di Dario Argento, o meno – attendevano al varco.
Perché Guadagnino – per quanto audace – del “Suspiria” del 1977 ha preso l’epoca, un pizzico d’atmosfera, la scuola di ballo e i suoi misteri, ma non è stato abbastanza esaltato – per fortuna – da cimentarsi in una copia carbone con la quale avrebbe avuto solo e soltanto da perdere.

Questo nuovo “Suspiria”, infatti, è un horror di facciata; che si accontenta di strizzare l’occhio al genere in un paio di occasioni – la prima, con Dakota Johnson che balla e provoca effetti collaterali su di un’altra ballerina, anche piuttosto interessante – decisamente più stratificato e ambizioso – se vogliamo – a livello di sceneggiatura, al punto da sembrare, a tratti, proprio un altro film: liberamente ispirato, si direbbe, in questi casi. Ci mette dentro la Raf, la banda Baader Meinhof e gli attentati terroristici subiti da Berlino durante l’epoca del muro, Guadagnino, contrapponendo il terrore respirato in strada, con quello consumato all’interno della scuola di danza dove Susie, la nuova e talentuosa ballerina appena arrivata, è stata ammessa grazie al posto rimasto vacante dopo la scomparsa, ancora irrisolta, di Patricia: un’attivista che, nel frattempo, aveva provato a confessare le stranezze e i rituali delle sue insegnanti al suo anziano psicanalista. Un tentativo originale per dare più respiro, per approfondire, per distaccarsi maggiormente dalla zona pericolo, andando ad aggiungere questioni e tematiche inedite, eppure perfettamente in linea con l’ambientazione, ma soprattutto con la filmografia del regista palermitano. Torna l’amore, quindi, carica prepotente e spirito dominante; la figura della Madre (con tanto di inquadratura su un quadro intento a sottolinearne il peso), e perciò della donna, esaltata nell'erotismo come nella sua malignità; insieme a quella voglia tutta estetica di rifarsi al cinema anni ‘80, attraverso una tecnica esemplare e accattivante che rinuncia, però, ai colori e alla psichedelia delle origini.

Suspiria GuadagninoUn ottimo lavoro, insomma, se l'obiettivo era quello di portare a casa un esercizio di stile, o di sperimentare a livello personale un genere e le sue potenzialità intrinseche: sebbene, in tal senso, sarebbe stato più vantaggioso scegliere un altro titolo e distaccarsi il più possibile da eventuali confronti (magari puntando all'omaggio indiretto). Perché quando prendi in prestito un brand, per quanto le tue intenzioni possano essere positive e costruttive, è inevitabile portarsi dietro, a cascata, tutta la Storia che quel brand conserva. E se il tuo brand si chiama “Suspiria” – e se lo promuovi con quella locandina, inoltre - non puoi assolutamente esimerti dal compito di spaventare, o quantomeno di tenere in tensione lo spettatore che decide di darti fiducia. Un aspetto che Guadagnino riesce a bucare su tutta la linea, non avendo nelle corde, forse, quel genere di cinema, ed essendo più organizzato a muoversi sotto altri canoni: tant’è che quando, nel finale, decide addirittura di scadere nello splatter, il risultato è a dir poco confusionario ed estraniante.

Cosa fa, allora, Guadagnino? Perde? Vince? Pareggia.
Sicuramente perde se pensiamo che nessuno – tranne un folle – nominerà mai “Suspiria”, in futuro, riferendosi alla sua versione: troppo distaccata e debole per essere degna di nota al punto da meritare una revisione o un rimando.

Pareggia, tuttavia, se pensiamo allo scoglio che è riuscito a superare quasi indenne (pur cercandoselo, è) - o comunque con qualche graffio superficiale - mentre tutti, intorno a lui, erano già pronti a tirare fuori la croce dalla tasca.

E questo, a secondo di chi valuta, può trapelare persino come una vittoria.

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