Quando ho letto di un “Toy Story 4”, non ci volevo credere.
Per quanto mi riguarda, infatti, le avventure di Woody e Buzz Lightyear avevano trovato il compimento perfetto in “Toy Story 3” e nonostante il (mio) cuore avrebbe voluto vederli all’infinito (e oltre) sul grande schermo, il buon senso era d’accordo sul fatto che meglio di così, ormai, non si poteva fare (e avere).
E aveva ragione.
Però c’è un altro discorso.
Un discorso che il mio buon senso – ma probabilmente non solo il mio – non aveva neppure preso in considerazione, legato non a quanto la saga di “Toy Story” potesse ancora dare a noi, ma a quanto noi potessimo (e dovessimo) concedere a lei. Perché se è vero che i nostri giocattoli, quando ci assentiamo dalla nostra stanza, prendono vita e mostrano l’anima, allora, è vero altrettanto che loro, come noi, hanno il diritto e il bisogno di fare un percorso. Un percorso che non è scontato debba essere ciclico e sempre uguale a sé stesso, perché come ci sono esseri umani a cui guai se ti azzardi a toccargli la loro routine, ne esistono anche altri che, a un certo punto, in preda alla stanchezza, alla noia, o semplicemente a nuovi stimoli, sentono che è arrivato il momento di cambiare qualcosa. Per cui quel finale splendido, commovente e definitivo che non avremmo mai toccato, ma solo difeso a spada tratta, posta questa premessa diventa all’improvviso proseguibile, analizzabile, insomma: un’opportunità. Del resto la piccola Bonnie non è Andy. Non ha i suoi gusti, non ha il suo cervello, non ha comprato lei quei giocattoli, ma gli sono stati regalati: un dettaglio che, vuoi o non vuoi, alla lunga rischia di fare tutta la differenza del mondo. Eppure non è qui che pone l’accento questo quarto capitolo diretto da Josh Cooley, che non a caso mette al centro un Woody insolitamente riflessivo e poco utilizzato, impegnato ad affannarsi in lungo e in largo per aiutare la bambina cui è stato destinato a superare il possibile trauma dell’esordio all’asilo.
Per quanto mi riguarda, infatti, le avventure di Woody e Buzz Lightyear avevano trovato il compimento perfetto in “Toy Story 3” e nonostante il (mio) cuore avrebbe voluto vederli all’infinito (e oltre) sul grande schermo, il buon senso era d’accordo sul fatto che meglio di così, ormai, non si poteva fare (e avere).
E aveva ragione.
Però c’è un altro discorso.
Un discorso che il mio buon senso – ma probabilmente non solo il mio – non aveva neppure preso in considerazione, legato non a quanto la saga di “Toy Story” potesse ancora dare a noi, ma a quanto noi potessimo (e dovessimo) concedere a lei. Perché se è vero che i nostri giocattoli, quando ci assentiamo dalla nostra stanza, prendono vita e mostrano l’anima, allora, è vero altrettanto che loro, come noi, hanno il diritto e il bisogno di fare un percorso. Un percorso che non è scontato debba essere ciclico e sempre uguale a sé stesso, perché come ci sono esseri umani a cui guai se ti azzardi a toccargli la loro routine, ne esistono anche altri che, a un certo punto, in preda alla stanchezza, alla noia, o semplicemente a nuovi stimoli, sentono che è arrivato il momento di cambiare qualcosa. Per cui quel finale splendido, commovente e definitivo che non avremmo mai toccato, ma solo difeso a spada tratta, posta questa premessa diventa all’improvviso proseguibile, analizzabile, insomma: un’opportunità. Del resto la piccola Bonnie non è Andy. Non ha i suoi gusti, non ha il suo cervello, non ha comprato lei quei giocattoli, ma gli sono stati regalati: un dettaglio che, vuoi o non vuoi, alla lunga rischia di fare tutta la differenza del mondo. Eppure non è qui che pone l’accento questo quarto capitolo diretto da Josh Cooley, che non a caso mette al centro un Woody insolitamente riflessivo e poco utilizzato, impegnato ad affannarsi in lungo e in largo per aiutare la bambina cui è stato destinato a superare il possibile trauma dell’esordio all’asilo.

Assai meno per noi, purtroppo.
Perché è fuori da ogni dubbio che da parte nostra continueremo a vedere a "Toy Story 3" come alla sublimazione, come al coronamento di una saga che non poteva congedarsi meglio e a cui non era il caso di chiedere qualcos’altro. Ma questo audace e generoso sequel cerca - riuscendoci pienamente - di mostrarci delle appendici – coerentissime – che, forse, avevamo sottovalutato del tutto e che valeva la pena analizzare.
Anche solo per amare ulteriormente – se possibile – i nostri giocattoli preferiti.
Trailer:
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