C’è l’età adulta di “Short Skin”, che è quella dove a un certo punto, da adolescenti, bisogna entrare per forza, e poi ce n’è un’altra, una più complessa, che riguarda chi adulto lo è già e deve imparare a sostenerne il peso, evitando di farsi annientare, sconvolgere o demoralizzare dai vari ostacoli che la vita – specialmente questa, di vita – quando meno te lo aspetti ti piazza davanti.
Dopo aver affrontato la prima, allora, il regista Duccio Chiarini, con “L’Ospite”, si prende la briga di riflettere sulla seconda, raccontandoci di Guido che dopo aver confessato alla sua ragazza di non essere, poi, così contrariato all’idea di avere un figlio con lei, si ritrova a vagare di divano letto in divano letto, tra genitori e amici stretti, a causa di un rapporto che, forse, non era più così solido e felice come lui ipotizzava. Una pausa di riflessione, teoricamente; una richiesta di spazio necessaria a mettere in chiaro alcune incertezze: quelle che Guido sembra non conoscere affatto, ma che all'improvviso, entrato in contatto col privato di quelli che erano i suoi riferimenti principali, comincia a scorgere, a mettere a fuoco e a sostenere con ansia. La felicità di facciata dei suoi coetanei (ma non solo la loro) - quelli coi figli, quelli che ostentavano enormi capacità di intesa - vista da vicino non fa altro che svelare le sue crepe, la sua provvisorietà, dando l’impressione che a distinguerli sia solo la maniera diversa di essere infelici. C’è chi è madre e flirta con l’ex tornato dal Cile; chi è single, ma non riesce a decidere con quale donna valga la pena provare a costruire qualcosa di serio; chi ha smesso di credere alle favole e prova a vivere in modo pratico e chi, semplicemente, sta insieme da una vita e giunto alla vecchiaia ha trovato, ormai, una serie di escamotage per sopportare la convivenza.
Dopo aver affrontato la prima, allora, il regista Duccio Chiarini, con “L’Ospite”, si prende la briga di riflettere sulla seconda, raccontandoci di Guido che dopo aver confessato alla sua ragazza di non essere, poi, così contrariato all’idea di avere un figlio con lei, si ritrova a vagare di divano letto in divano letto, tra genitori e amici stretti, a causa di un rapporto che, forse, non era più così solido e felice come lui ipotizzava. Una pausa di riflessione, teoricamente; una richiesta di spazio necessaria a mettere in chiaro alcune incertezze: quelle che Guido sembra non conoscere affatto, ma che all'improvviso, entrato in contatto col privato di quelli che erano i suoi riferimenti principali, comincia a scorgere, a mettere a fuoco e a sostenere con ansia. La felicità di facciata dei suoi coetanei (ma non solo la loro) - quelli coi figli, quelli che ostentavano enormi capacità di intesa - vista da vicino non fa altro che svelare le sue crepe, la sua provvisorietà, dando l’impressione che a distinguerli sia solo la maniera diversa di essere infelici. C’è chi è madre e flirta con l’ex tornato dal Cile; chi è single, ma non riesce a decidere con quale donna valga la pena provare a costruire qualcosa di serio; chi ha smesso di credere alle favole e prova a vivere in modo pratico e chi, semplicemente, sta insieme da una vita e giunto alla vecchiaia ha trovato, ormai, una serie di escamotage per sopportare la convivenza.
La fotografia di una generazione, insomma, quella dei trentenni e dei quarantenni di oggi, che – come dice la madre di Guido – non ripara niente, perché ricompra tutto. Una generazione che ha le sue colpe, magari, ma che deve molto della sua formazione alla precarietà cui deve far fronte e che, molto spesso, tende a svalutarla, a prenderla in giro, alimentandone paure, sfiducie e aprendo la porta a quella crisi esistenziale e sentimentale su cui “L’Ospite” decide di porre la lente. Lo fa, tra l’altro, mettendo a confronto generazioni diverse, paragonandole tra loro: consapevole che, probabilmente, i criteri di giudizio, le ambizioni e i valori di una volta non fanno (e non faranno) più parte del mondo che ci circonda. Quel mondo nel quale Guido, però, deve tornare a stare in piedi, a difendersi, a credere ancora, e l’unico modo che ha per farlo è quello di cominciare a guardarlo in faccia per come è veramente, accantonando gli ideali e adattandosi agli imprevisti.
Perché se i riferimenti che avevamo si rivelano deboli oppure obsoleti, l’unica via che abbiamo per non finire fuori strada è quella di imparare a stare senza di loro. Procedendo lungo il cammino con quel po’ di esperienza messa in tasca, la giusta dose di fiducia in noi stessi e una voglia matta di lasciarsi sorprendere.
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