Una risata fuori luogo.
Una risata involontaria, che forza i lineamenti del viso, non segue l’espressione degli occhi, la situazione del contesto. Perché la risata di Arthur non è una risata sincera, non sempre almeno; è una risata che quando si scatena lascia le persone attonite, confuse e lui costretto a lasciare un bigliettino – simile a quelli da visita – di scuse, che lo giustifica in quanto malato mentale.
Non pericoloso, però.
Non ancora.
Una risata involontaria, che forza i lineamenti del viso, non segue l’espressione degli occhi, la situazione del contesto. Perché la risata di Arthur non è una risata sincera, non sempre almeno; è una risata che quando si scatena lascia le persone attonite, confuse e lui costretto a lasciare un bigliettino – simile a quelli da visita – di scuse, che lo giustifica in quanto malato mentale.
Non pericoloso, però.
Non ancora.
Devono accadere determinate cose, prima che Arthur diventi Joker. Prima che la pellicola scritta e diretta da Todd Phillips cominci ad avere a che fare con l’universo DC e con il reboot di Batman: tracciando quei collegamenti forzati e superficiali – se vogliamo – che questo “Joker” – che poteva benissimo chiamarsi “Arthur” – avrebbe tranquillamente potuto rifiutare, perdendo un pizzico di appeal magari, ma senza dover andare a modificare minimamente la sua struttura, le sue corde e i suoi intenti. La Gotham che vediamo infatti, così degradata, con il problema rifiuti in essere e il divario tra ricchi e poveri in costante ascesa, è il ritratto di una società che può risultarci estranea fino a un certo punto. È la proiezione futuristica ed estremizzata del nostro presente, che col mondo dei fumetti, se c’entra, lo fa involontariamente e non per desiderata fedeltà. Un ragionamento che va ad applicarsi anche alla figura dell’Arthur di Joaquin Phoenix (superbo, come al solito), quel futuro Joker che sempre questa società ha voluto relegare a ruolo di reietto, abbandonare, sfruttare, prendendosene gioco e invitandolo, inevitabilmente, a una disperazione che – e se facciamo attenzione, lo vediamo – può portare solamente a due conseguenze: il suicidio o la vendetta. Due scelte, a loro modo, drastiche e sulle quali Arthur pende e oscilla regolarmente, salvo buttarsi alla fine su quella che già conosciamo, per via di un corto circuito legato ancora – e guarda caso – al sistema che lo ha creato, leso e condannato (e che lui stesso, lucidamente, considera malato).
Non bisogna lasciarsi ingannare, insomma: il genere cinecomic abita da tutt’altro lato.
La pellicola di Phillips guarda maggiormente dalle parti di “Taxi Driver”, di “Re Per Una Notte” – dal quale prende in prestito Robert De Niro e un surrogato del suo personaggio – e tenta di ragionare in maniera (più) feroce e (più) brutale su come quelle personalità, quei casi limite, approccerebbero (e approcciano?) la realtà di oggi. Una realtà decisamente coi piedi meno saldati a terra, meno sana e per questo incapace di fornirci risposte o reazioni logiche e normali. Dove il Joker non è (più) un criminale con la maschera, non è l’anomalia, ma il Dio-simbolo di una rivoluzione alle porte che attendeva il pretesto e il suo leader per partire alla carica. Una rivoluzione che, però, non è costruttiva, non ha valori e né tantomeno morale, ma unicamente il bisogno di sfogare quella rabbia repressa mista a violenza, verso i Signori e verso il Potere (uno specchio della politica moderna).
Danza sul caos, allora, Arthur: su quello suo mentale e poi sul nostro, totale.
In una pellicola dove da ridere non c’è quasi nulla (e quando lo si fa la risata è caustica), dove il pessimismo è cosmico, e fa da padrone, e da cui, perciò, non si può che uscire piuttosto rigidi e agghiacciati.
E con il dubbio che, forse, una parvenza di ottimismo - pure striminzita - non avrebbe fatto male.
Trailer:
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