L’obiettivo era uno: salvare il salvabile.
Che in un pasticcio sconclusionato come quello di “Suicide Squad”, in parole povere significava inventarsi qualcosa per trattenere il personaggio di Harley Quinn. O, meglio ancora, per trattenere le curve e la bellezza di una star come Margot Robbie.
Non è un mistero che al momento l’attrice – a Hollywood e non solo – goda di una certa attenzione e di un certo appeal, e che la sua versione della psicologa votata alla pazzia per colpa del Joker porti con sé una miriade di potenzialità, e fantasie di varia natura, che difficilmente potevano essere ereditate – senza andare in perdita – da una qualsivoglia sostituta.
Ma alla Warner sapevano che ciò non poteva bastare; che poteva essere al massimo un punto di partenza, specialmente nel periodo in cui movimenti come il #metoo e il #timeisup stanno influenzando scelte e produzioni, ammonendo pubblicamente episodi gratuiti di maschilismo e disparità di genere. E allora come rispondere a tutto ciò? Come unire l’utile al dilettevole? La realtà dei fatti con il politically correct? Semplice, con una pellicola che parla di donne sottomesse agli uomini – in amore, professionalmente, per timore e via dicendo sotto ogni declinazione – che per motivi diversi decidono di reagire alla loro condizione e poi, addirittura, di fare gruppo: dimostrando alla specie alfa dell’altro sesso di non detenere il monopolio del potere. Un risvolto furbo, insomma, secondo alcuni ruffiano, magari, ma se innestato in un contesto fumettistico, e cavalcato in un certo modo, neppure eccessivamente da condannare. A dare una mano, poi, c’è anche quel pizzico di follia spiritosa sostenuta da una cornice altamente pop, disegnata appositamente per estremizzare i toni e strizzare di continuo l’occhio allo spettatore. Una missione apparentemente compiuta, verrebbe da dire. Apparentemente, però. Perché c’è sempre quel nodo relativo alla narrazione che, rispetto al suo predecessore, “Bird Of Prey” migliora, snellisce, ma dimostra ancora di non riuscire a controllare: facendosi più chiaro nella teoria che nella pratica.
Forse paga il non essere stato pensato negli ultimi due mesi il film diretto dalla regista – donna, ovviamente – Cathy Yan. Paga il non aver vissuto in terza persona il collasso dei blockbuster che nelle ultime settimane – dopo il caos Star Wars – ha portato l’industria cinematografica americana a riflettere se non sia il caso di tornare a sedersi al tavolo e riflettere su come – forse – sono cambiati (o si sono saturati) i gusti degli spettatori. Una cosa, tuttavia, è inconfutabile: lo spettacolo da luna park fine a sé stesso comincia a vacillare, a non garantire più quei frutti che per un lungo periodo di tempo aveva concesso. E sotto questo aspetto “Bird Of Prey” perde parecchie chances, perché di incentivi per non trastullarsi e dare spessore ai suoi personaggi ne aveva a bizzeffe: avrebbe potuto dar vita a un immaginario e a un universo femminile di tutto rispetto e contrapporsi a quello Marvel, maschile, capitanato dagli Avengers. Invece finisce col sottovalutarsi, col giocherellare, che – attenzione – non c’entra nulla col non prendersi troppo sul serio. Non rispetta i suoi protagonisti, non rispetta il suo villain – meritava un trattamento migliore – né tantomeno quella sorellanza che sbandiera e di cui si fa ambasciatore.
Per cui se l’obiettivo era uno ed era salvare il salvabile, è evidente che non lo si è portato a casa con successo. Si è riusciti a tirare fuori una seconda possibilità dalle macerie, forse, ma a guardare il risultato, onestamente, si fatica a pensare di trovarsi di fronte a una costruzione stabile.
Trailer:
Che in un pasticcio sconclusionato come quello di “Suicide Squad”, in parole povere significava inventarsi qualcosa per trattenere il personaggio di Harley Quinn. O, meglio ancora, per trattenere le curve e la bellezza di una star come Margot Robbie.
Non è un mistero che al momento l’attrice – a Hollywood e non solo – goda di una certa attenzione e di un certo appeal, e che la sua versione della psicologa votata alla pazzia per colpa del Joker porti con sé una miriade di potenzialità, e fantasie di varia natura, che difficilmente potevano essere ereditate – senza andare in perdita – da una qualsivoglia sostituta.
Ma alla Warner sapevano che ciò non poteva bastare; che poteva essere al massimo un punto di partenza, specialmente nel periodo in cui movimenti come il #metoo e il #timeisup stanno influenzando scelte e produzioni, ammonendo pubblicamente episodi gratuiti di maschilismo e disparità di genere. E allora come rispondere a tutto ciò? Come unire l’utile al dilettevole? La realtà dei fatti con il politically correct? Semplice, con una pellicola che parla di donne sottomesse agli uomini – in amore, professionalmente, per timore e via dicendo sotto ogni declinazione – che per motivi diversi decidono di reagire alla loro condizione e poi, addirittura, di fare gruppo: dimostrando alla specie alfa dell’altro sesso di non detenere il monopolio del potere. Un risvolto furbo, insomma, secondo alcuni ruffiano, magari, ma se innestato in un contesto fumettistico, e cavalcato in un certo modo, neppure eccessivamente da condannare. A dare una mano, poi, c’è anche quel pizzico di follia spiritosa sostenuta da una cornice altamente pop, disegnata appositamente per estremizzare i toni e strizzare di continuo l’occhio allo spettatore. Una missione apparentemente compiuta, verrebbe da dire. Apparentemente, però. Perché c’è sempre quel nodo relativo alla narrazione che, rispetto al suo predecessore, “Bird Of Prey” migliora, snellisce, ma dimostra ancora di non riuscire a controllare: facendosi più chiaro nella teoria che nella pratica.
Forse paga il non essere stato pensato negli ultimi due mesi il film diretto dalla regista – donna, ovviamente – Cathy Yan. Paga il non aver vissuto in terza persona il collasso dei blockbuster che nelle ultime settimane – dopo il caos Star Wars – ha portato l’industria cinematografica americana a riflettere se non sia il caso di tornare a sedersi al tavolo e riflettere su come – forse – sono cambiati (o si sono saturati) i gusti degli spettatori. Una cosa, tuttavia, è inconfutabile: lo spettacolo da luna park fine a sé stesso comincia a vacillare, a non garantire più quei frutti che per un lungo periodo di tempo aveva concesso. E sotto questo aspetto “Bird Of Prey” perde parecchie chances, perché di incentivi per non trastullarsi e dare spessore ai suoi personaggi ne aveva a bizzeffe: avrebbe potuto dar vita a un immaginario e a un universo femminile di tutto rispetto e contrapporsi a quello Marvel, maschile, capitanato dagli Avengers. Invece finisce col sottovalutarsi, col giocherellare, che – attenzione – non c’entra nulla col non prendersi troppo sul serio. Non rispetta i suoi protagonisti, non rispetta il suo villain – meritava un trattamento migliore – né tantomeno quella sorellanza che sbandiera e di cui si fa ambasciatore.
Per cui se l’obiettivo era uno ed era salvare il salvabile, è evidente che non lo si è portato a casa con successo. Si è riusciti a tirare fuori una seconda possibilità dalle macerie, forse, ma a guardare il risultato, onestamente, si fatica a pensare di trovarsi di fronte a una costruzione stabile.
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