Lontano dalle mani di Terrence Malick una storia vera come quella dell’obiettore di coscienza austriaco Franz Jägerstätter – che durante la Seconda Guerra Mondiale si rifiutò di giurare fedeltà a Hitler, subendo tutte le conseguenze del caso – avrebbe assunto i tratti classici di un dramma ambientato durante il regime nazista, cadendo, probabilmente, nella retorica – tanta o poca – da quattro soldi, per poi accodarsi alla sfilza di opere simili, incapaci di fare la differenza.
Filtrato attraverso lo stile inconfondibile del regista, invece, “La Vita Nascosta: Hidden Life” diventa tutta un’altra cosa: non perde contatto con le ovvietà di cui sopra, ma le pone giustamente in secondo piano, assumendo fortemente i tratti di riconoscimento del cinema malickiano più puro.
Con un piede allenato a non premere troppo sull'acceleratore, per non rischiare di perdere – come successo in alcune delle ultime uscite – l’attenzione dello spettatore medio, Malick (ci) racconta allora il malessere e la croce di Franz servendosi di grandangolo – per esaltare l'inquietudine – e di un controcampo fondamentale: quello di una moglie (e di una madre) amatissima, che per amore lo asseconda nel travaglio di una scelta (e un destino) – per somma di considerazioni – facilmente evitabile. Perché sul piatto di Franz – che non ha la minima intenzione di sporcarsi le mani per una causa in cui non crede e, per giunta, foraggiata da un folle – a un certo punto, viene servita anche l’opportunità di non combattere per il Fuhrer e di essere ricollocato negli ospedali di soccorso: purché accetti di sottomettersi al padrone, firmando un documento che – ufficialmente – lo integrerà come militante del Terzo Reich. Una questione morale alla quale l’uomo non intende abbassarsi, nonostante qualcuno – suo avvocato compreso – gli suggerisca di fregarsene e di scarabocchiare le carte pensando ad altro: che tanto, in fondo, quelle riportate “sono solo parole” e niente di più. Punti di vista che servono a inquadrare alla perfezione il momento storico, i criteri di valutazione (ammesso che di criterio si possa discutere), portando a galla quesiti e riflessioni di svariata natura, pratici a stimolare quel flusso di coscienza e quegli interrogativi di carattere etico, religioso ed – per forza di cose – esistenziale, tanto cari al regista.
Della Seconda Guerra Mondiale, quindi, in “La Vita Nascosta: Hidden Life” ci sono gli echi e le sofferenze, mai le visioni esplicite di bombe, sangue o morti. Il conflitto è solo interno, ed è quello di un uomo, che è pure figlio, padre e marito, costretto a decidere se tradire sé stesso per non perdere la sua famiglia – sapendo che verrà ricordato come uno degli uomini di uno spietato dittatore – oppure resistere fino alla morte, rinunciando agli affetti (e provocando loro dolore), ma proteggendo il suo credo. Un credo che Malick vuole trascendere dalla semplicità dello schieramento giusto o sbagliato – che, comunque, resta soggettivo – e che, non appena riesce a ritagliarsene la possibilità, trascina ed esamina traslocando sul terreno della spiritualità e della devozione: e rivolgendosi a quel Dio cui chiede se valga davvero la pena morire così; se esista una chiave di lettura per comprendere questo suo agire in maniera ambigua, sebbene non arrivi mai a metterlo in discussione, ma piuttosto a promuoverlo con la riserva che magari, un giorno, il senso di questo male gratuito verrà svelato.
Fotografato meravigliosamente – davvero, ogni inquadratura è una bellezza per gli occhi – da Jörg Widmer – che è (stato) operatore e seconda unità di Emmanuel Lubezki e che ha imparato benissimo il mestiere, perché si fa fatica a notare le differenze – quest’ultimo lavoro di Malick trova quindi forza e spessore proprio nel saper evitare scorciatoie all'interno di una vicenda che – nota o meno che sia – per trovare originalità di esposizione (e densità), doveva inevitabilmente fondersi con quell'intimo passionale e privato, appartenente ai suoi protagonisti.
Un cambio di prospettiva determinante, non accessibile a qualunque autore.
Trailer:
Filtrato attraverso lo stile inconfondibile del regista, invece, “La Vita Nascosta: Hidden Life” diventa tutta un’altra cosa: non perde contatto con le ovvietà di cui sopra, ma le pone giustamente in secondo piano, assumendo fortemente i tratti di riconoscimento del cinema malickiano più puro.
Con un piede allenato a non premere troppo sull'acceleratore, per non rischiare di perdere – come successo in alcune delle ultime uscite – l’attenzione dello spettatore medio, Malick (ci) racconta allora il malessere e la croce di Franz servendosi di grandangolo – per esaltare l'inquietudine – e di un controcampo fondamentale: quello di una moglie (e di una madre) amatissima, che per amore lo asseconda nel travaglio di una scelta (e un destino) – per somma di considerazioni – facilmente evitabile. Perché sul piatto di Franz – che non ha la minima intenzione di sporcarsi le mani per una causa in cui non crede e, per giunta, foraggiata da un folle – a un certo punto, viene servita anche l’opportunità di non combattere per il Fuhrer e di essere ricollocato negli ospedali di soccorso: purché accetti di sottomettersi al padrone, firmando un documento che – ufficialmente – lo integrerà come militante del Terzo Reich. Una questione morale alla quale l’uomo non intende abbassarsi, nonostante qualcuno – suo avvocato compreso – gli suggerisca di fregarsene e di scarabocchiare le carte pensando ad altro: che tanto, in fondo, quelle riportate “sono solo parole” e niente di più. Punti di vista che servono a inquadrare alla perfezione il momento storico, i criteri di valutazione (ammesso che di criterio si possa discutere), portando a galla quesiti e riflessioni di svariata natura, pratici a stimolare quel flusso di coscienza e quegli interrogativi di carattere etico, religioso ed – per forza di cose – esistenziale, tanto cari al regista.
Della Seconda Guerra Mondiale, quindi, in “La Vita Nascosta: Hidden Life” ci sono gli echi e le sofferenze, mai le visioni esplicite di bombe, sangue o morti. Il conflitto è solo interno, ed è quello di un uomo, che è pure figlio, padre e marito, costretto a decidere se tradire sé stesso per non perdere la sua famiglia – sapendo che verrà ricordato come uno degli uomini di uno spietato dittatore – oppure resistere fino alla morte, rinunciando agli affetti (e provocando loro dolore), ma proteggendo il suo credo. Un credo che Malick vuole trascendere dalla semplicità dello schieramento giusto o sbagliato – che, comunque, resta soggettivo – e che, non appena riesce a ritagliarsene la possibilità, trascina ed esamina traslocando sul terreno della spiritualità e della devozione: e rivolgendosi a quel Dio cui chiede se valga davvero la pena morire così; se esista una chiave di lettura per comprendere questo suo agire in maniera ambigua, sebbene non arrivi mai a metterlo in discussione, ma piuttosto a promuoverlo con la riserva che magari, un giorno, il senso di questo male gratuito verrà svelato.
Fotografato meravigliosamente – davvero, ogni inquadratura è una bellezza per gli occhi – da Jörg Widmer – che è (stato) operatore e seconda unità di Emmanuel Lubezki e che ha imparato benissimo il mestiere, perché si fa fatica a notare le differenze – quest’ultimo lavoro di Malick trova quindi forza e spessore proprio nel saper evitare scorciatoie all'interno di una vicenda che – nota o meno che sia – per trovare originalità di esposizione (e densità), doveva inevitabilmente fondersi con quell'intimo passionale e privato, appartenente ai suoi protagonisti.
Un cambio di prospettiva determinante, non accessibile a qualunque autore.
Trailer:
Più che mai attuale....e atroce
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