Un mondo che esiste, e che è sempre esistito, ma che non lo conosci mai veramente finché per scelta, o per costrizione, non ci finisci dentro con tutte le scarpe. È un mondo stracolmo di opportunità alternative (seppur precarie e rischiose), di facciate sorprendenti; spaventoso per i più fortunati, fortemente radicati e integrati nella società contemporanea, e ancora di salvezza per tutti quelli che invece, in quella stessa società, non sono riusciti a integrarsi o, peggio ancora, sono stati prima accettati, poi prosciugati e quindi espulsi.
Reinventarsi, essere liquidi, adattarsi.
Sono concetti (abusati) che nel mercato del lavoro moderno hanno un senso – ce l'hanno? – solamente se applicati a una fascia d’età relativamente giovane, dinamica e alla ricerca di piccole posizioni in grado di garantire sostentamento per gli studi o, al massimo, l’affitto di una stanza/casa. Hanno un senso solamente se applicate per un certo periodo di tempo, una formazione, attraverso la quale riuscire a individuare il proprio canale di competenza per poi batterlo diligentemente, riuscendo magari a costruirsi una posizione e una carriera. Sono belle parole, insomma, che potranno illudere qualcuno in merito a un futuro comunque roseo, perché pieno di possibilità, ma a conti fatti stanno lì proprio a ricordarci l’esistenza di un’ombra volta a rappresentare l’esatto opposto. Ne sa qualcosa la Fern di Frances McDormand, che dopo la Grande Recessione che ha visto chiudere la fabbrica in cui lavorava, per tirare a campare - complice anche la morte del marito - deve vivere su un camion e accettare i lavori più disparati in giro per il paese. Lavori di fatica, per lo più, rigorosamente stagionali e perciò con nessuna speranza di riuscire a fermare questa ruota e ritrovare la stabilità e la sicurezza andate.
Piace definirsi così a lei, che non batte ciglio e pur di non dargliela vinta al sistema che la vorrebbe – appunto – invisibile e dismessa, cerca in tutti i modi di rendersi utile e di reagire alle avversità. Ed è alla scoperta di questa popolazione che vuole condurci “Nomadland”; accompagnarci nei luoghi di accampamento dove necessità fa virtù e l’unione fa la forza, aprendoci la porta su un microcosmo oggettivamente affascinante e superbo, per inesauribile volontà e per ostinazione. Una comunità disposta ad aiutarsi e a sostenersi senza secondi fini, dove la condivisione è spontanea e all’ordine del giorno e il motto di riferimento è quello di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno. Una sorta di riscatto sociale, secondo il punto di vista della regista Chloé Zhao, che evita volontariamente di dirigersi verso la strada della denuncia e della compassione, abbracciando l’alternativa di una spiritualità tutta da cogliere.
Ciò che nasce da una crisi, allora, diventa nuovamente opportunità.
L’opportunità di rinunciare a una vita più tranquilla e serena, e con delle tappe già definite, in favore di una seconda decisamente più complessa, eppure assai ricca di umanità, calore e sorprese lungo il tragitto.
Un risvolto che probabilmente è fin troppo cinematografico e conciliante, se letto in termini assoluti, però perfettamente in linea con l’approccio appassionato e sognante inseguito dalla regista.
Trailer:
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