Il che è una strategia comprensibile, per carità, specie in un periodo – e qui la pandemia non c’entra – dove determinati generi di pellicole faticano ad attirare l’attenzione e a racimolare numeri da box-office. Del resto, quello scritto e diretto da Florian Zeller – che poi è un adattamento della pièce teatrale sempre da lui firmata – è un film che resta ben saldo e fedele alle sue radici, ancorato il più possibile ad un unico ambiente e che cerca di costruire suspense ed emozioni affidandosi alle performance – sublimi – di due attori monumentali come Anthony Hopkins e Olivia Colman: rispettivamente un padre malato di Alzheimer, che si ostina a rifiutare categoricamente – anche in maniera bambinesca – qualsiasi tipo di aiuto, e una figlia in partenza da Londra a Parigi (oppure no?), che non sa più come fare per gestire una situazione che, inevitabilmente, va a scontrarsi anche con i suoi sentimenti. Un dramma, quindi, che però tende a vestirsi e a tramutarsi in thriller-psicologico; che prende la malattia del suo protagonista e la va a usare come stimolo costruttivo per dare una scossa al racconto e renderlo così più misterioso, intrigante, ambiguo: giocando con la sovrapposizione di piani temporali e personaggi e con la realtà e l’immaginazione.
E, allora, no, nulla è come sembra, tranne forse lo scopo di un film che mira a non voler sfigurare e che ce la mette tutta per tentare di eguagliare quanto di buono ottenuto sul palco (in termini di giudizi, sia chiaro). Timore che Zeller può assolutamente scongiurare e scacciare via, un po' per merito suo e un po' per quello - predominante - degli attori sui quali ha avuto il privilegio di poter fare affidamento.
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