The French Dispatch - La Recensione

The French Dispatch Poster

Fa strano paragonare Wes Anderson a Robert Rodriguez, eppure il suo "The French Dispatch", a me non ha fatto altro che ricordare il secondo capitolo di Sin City
Sì, quello con Eva Green.

Non solo per il bianco e nero, che nel film di Anderson pure c'è e si alterna al colore, quanto per l'episodio centrale del suo film: che dà l'idea di voler essere un qualcosa di più, che purtroppo non è potuto essere. Come fu per "Una Donna Per Cui Uccidere" - che tra l'altro era esaltato dalla bellezza straripante di Green, in questo caso sostituita egregiamente da un'altra bellezza straripante, quella di Léa Seydoux - "The French Dispatch" è un film a episodi, tutti relegati alle sezioni del giornale da cui prende il titolo e che, quindi, funge anche da filo invisibile per tenerli uniti. Ma uno solo, in realtà, sembra avere la forza, il linguaggio e la brillantezza dell'Anderson che conosciamo (e che amiamo). Si tratta del racconto che vede protagonista Benicio Del Toro nei panni di un violento criminale detenuto in manicomio, che scopre di poter arginare le sue ringhia e la sua violenza, utilizzando le proprie mani per realizzare opere d'arte: ispirato dal fascino dell'agente Seydoux che diventa sua musa e amante. Un concentrato di ironia, di paradossi e di assurdità che, già dalle prime immagini, dimostra di avere un altro passo, di rinvigorire una pellicola che sembrava stesse girando in tondo, catturando finalmente l'attenzione e trovando un centro, sia narrativo che emotivo.

The French Dispatch Seydoux

Una quadra - per usare un termine che ad Anderson piacerebbe - che, non appena raggiunta, non ci si può permettere di perdere; che si ha il dovere di mantenere alta, all'incirca sul quello standard. E ci prova, Anderson. Ci prova procedendo con questo progetto di lettura visiva da quotidiano che però ritorna a somigliare a una sorta di astuto traccheggio. Un traccheggio di un certo livello, sia chiaro, ma pur sempre un riempimento intorno al quale si fatica a trovare un amalgama fluente: ovvero il senso di un'opera che - e probabilmente lo scopo era questo - una volta giunta a conclusione riesca a trasmettere la compattezza e la compiutezza che il finale vorrebbe inviare. Ma nonostante ciò, nonostante un lavoro oggettivamente svolto con mano sinistra, quando si parla di autori - e in questo caso si parla di autori - il risultato appare comunque meno confusionario e più disciplinato di quanto ci si possa immaginare. Persino in quelle storie, così, di contorno, infatti, ad Anderson viene spontaneo inserire fatti, parole e punti di vista appartenenti alla sua personalità, sensibilità, riuscendo a intermittenza a riaccendere noi spettatori, seppur mai con lo stesso calore e la stessa passione raggiunti nel picco.

Ma di fronte a un cast del genere, di fronte a determinati nomi - il suo compreso - è normale ritrovarsi nei titoli di coda a scuotere un po' la testa, titubanti. Consci di aver visto uno spettacolo d'intrattenimento superiore alla media, ma un film di Anderson inferiore alle aspettative e alle sue potenzialità.
Il che ci sta, non è un delitto. Ma per tornare a Sin City e a Rodriguez, magari era il caso di commetterlo stavolta un delitto e rischiare di avere il più possibile sullo schermo sia Del Toro che - e soprattutto - Seydoux (che peraltro ci regala nuovamente un suo nudo integrale).

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