Alla fine è tutto lì, evidente; alla luce del giorno.
Eppure Edgar Wright è bravissimo a mischiare le carte, a creare l’eclissi: coprendo il sole e la serenità della Cornovaglia, con le ombre e l’oscurità di una Londra che diventa immediatamente inquietante quando la notte, accese le insegne a neon, si concede a una movida dissoluta e senza freni. Una Londra nella quale la giovane Eloise arriva entusiasta e piena di aspettative dopo aver vinto la borsa di studio che le consentirà di frequentare la scuola di stilista e approfondire la sua passione per la moda. Ma una Londra, anche, che come dice sua nonna a ripetizione, spesso può essere troppo: specie per chi, come sua nipote, ha una forte sensibilità e un’altissima percezione delle cose. Tant'è che quando il suo provincialismo diventa oggetto di scherno da parte delle sue compagne e l’alloggio nella struttura che condivide con loro si fa insostenibile, Eloise si trasferisce a casa di un’anziana signora disposta ad affittarle una stanza e – prese le distanze dai suoi coetanei – comincia a far sogni che la riportano indietro nella Londra degli anni ’60, sovrapponendo la sua immagine a quella di Alexandra, una cantante in ascesa, soprannominata Sandy. Da qui “Ultima Notte A Soho” diventa una sorta di “Alice Nel Paese Delle Meraviglie” in evoluzione: una discesa incantevole e affascinante all'interno della tana di un bianconiglio che però non vede l’ora di tirare fuori le unghie e graffiare, trasformando il piacere iniziale in un incubo al quale sembra impossibile ritrarsi o sfuggire. Un terreno fin troppo fertile per Wright, che ne approfitta per giocare coi generi e dare sfogo al suo estro passando a piacimento dal thriller al thriller-psicologico e da quest’ultimi all’horror. Una sfilata alla quale non intende farsi mancare nulla, neppure la scelta di una colonna sonora azzeccatissima, con brani accuratamente selezionati per esaltare il magnetismo di alcune sequenze, nelle quali la sua creatività raggiunge il massimo dell’estetica e della potenza cinematografica.
Ma guai a chiamarlo esercizio di stile.
Perché uno dei pregi maggiori di Wright è proprio il non perdere mai di vista l’oggetto principale: il racconto. E, ove possibile, riuscire anche a nutrirlo di quella profondità che non è mai eccessivamente forzata, come nemmeno insincera o casuale. Perciò sarà facile intercettare rimandi a un certo tipo di maschilismo, a movimenti me too e alla tematica della violenza sulle donne, in “Ultima Notte A Soho” (e chissà se prendere di mira il mondo dello showbusiness è casuale o specifico?). Meno facile potrebbe essere lo scendere a patti con alcune scelte morali alle quali si aggrappa, che non sono affatto né di colore bianco, né di colore nero: ma quello è un effetto collaterale che al suo regista (e sceneggiatore) interessa zero – per fortuna – e al quale non intende restituire il minimo peso. L’importante è che il giocattolo non si rompa, infatti, che continui a fare il suo lavoro, a tenere saldi il ritmo, gli intrecci e l’intrattenimento: cosa che onestamente non gli si può in assoluto contestare.
E pure se, ripensandoci, davvero ci accorgiamo che in fondo era tutto lì sin da subito, evidente e alla luce del giorno – al punto che probabilmente c'è chi riuscirà ad anticipare il tiraggio delle fila – “Ultima Notte A Soho” riesce comunque a far rabbrividire, a spaventare, a colpire la nostra immaginazione e a inculcarsi nella nostra testa. Segno che le doti da prestigiatore di Wright non sono niente male, sicuramente, ma pure che quelle da regista sono ancora meglio.
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